martedì 17 settembre 2013

Non ci sono più le mezze stagioni

Non ci sono più le mezze stagioni - Racconto per Narrativo Presente

ll tema del mese di marzo di "Narrativo Presente" proposto da Autodafè Edizioni era "Un paese per giovani e vecchi".
Questo il mio racconto, che è incluso nell'omonima raccolta proposta in ebook sui siti:

 www.autodafe-edizioni.com 
www.bookrepublic.it 


Non ci sono più le mezze stagioni


Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l’orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo.
Dino Buzzati – Il Deserto dei Tartari.

La mattina del mio venticinquesimo anniversario di lavoro alla Plastimit è particolarmente calda e soleggiata, ma rimane ancora un po’ di neve sui prati e ai bordi delle strade, ultima traccia di un lungo inverno che a marzo inoltrato non si decide a lasciarci.
Ho indossato un abito grigio, camicia azzurra e cravatta regimental, e sto guidando con calma, ascoltando musica e il notiziario, come sempre. Cerco di farla trascorrere come una giornata qualunque, senza aspettarmi nulla di particolare. Ma una sottile eccitazione attraversa il mio corpo e mi spinge a dedicare una cura particolare ad ogni mio gesto. È come se volessi assaporare un’occasione speciale, ma senza farlo troppo sapere in giro.
Con mia moglie Paola non servono mai molte parole. Ne abbiamo parlato, però, e stamattina uscendo mi ha sorriso e salutato con più affetto del solito. Giada è al suo secondo stage con l’università, ha litigato con il fidanzato, vive una vita molto movimentata e liquiderebbe il mio stato d’animo come irrimediabilmente patetico.
Ad Alice l’ho detto ieri sera, mentre la mettevo a dormire tra i suoi peluche: «Lo sai che domani sono venticinque anni esatti che ho iniziato a lavorare?»
«Wow papi, davvero?»
«Sì, era un posto molto piccolo, allora, e adesso siamo diventati tanto, tanto grandi e anche il mio lavoro ha fatto diventare più grande la mia società. Insomma, mi sembra che in tutti questi anni sia rimasto qualcosa di mio lì dentro.»
«Fico papi! Ma in tutto questo tempo non ti sei mai annoiato?»
«Be’, magari qualche volta mi sono annoiato, altre volte mi sono anche arrabbiato, ma spesso mi sono sentito fiero di lavorare lì, e ho visto passare tante persone, di qualcuna sono diventato amico, di qualche altro continuo a non fidarmi. Insomma ci ho passato una vita intera, come si fa a riassumerla?»
Già, come si fa a riassumere una vita? Ci sono stati alti e bassi, ho sempre vissuto alla giornata e oggi è una delle tante.

Attraverso l’atrio, saluto le ragazze alla reception, mi fermo all’ascensore. Gigi mi saluta sfasciandomi una spalla come al solito e poi attacca a parlare della Juve. Da tempo non seguo il calcio e mi limito a fingere interesse: in realtà memorizzo qualche commento qua e là e poi me li rivendo, giusto per non essere tagliato fuori dalla conversazione.
Ho un ufficio molto luminoso, vedo le montagne innevate in lontananza e un grande prato con una magnolia che sta già  per fiorire oltre la siepe che circonda il parcheggio.
Fino alle dieci, dieci e mezza effettivamente è una mattina come tante altre. Poi arriva una telefonata.
«Ciao Giovanni, sono Barbara. Puoi scendere da me un attimo?»
Il direttore del personale mi vuole parlare. Pensano davvero di farmi una sorpresa? È un pensiero carino, vado volentieri e poi Barbara mi è simpatica, forse un po’ troppo seria, un po’ troppo manageriale, ma in fondo una brava ragazza, che lavora con noi da cinque anni e si sta comportando bene.
Prendo le scale, è solo un piano. Mi chiedo se hanno intenzione di ripristinare la festa annuale, inclusa premiazione dei dipendenti più anziani. L’avevano abolita per i tagli nei budget, ma quest’anno stiamo andando meglio, magari la vogliono ripristinare. Sorrido.
Quando apro la porta del suo ufficio, Barbara non è sola. Con lei ci sono Antonio, il mio capo, e Simone, che è il responsabile dell’ufficio legale.
Se ne stanno in silenzio, nella penombra. Antonio mi dà le spalle e finge di guardare attraverso le tendine abbassate. Barbara mi viene incontro, mentre Simone tamburella pensieroso sul tavolo da riunione.
«Entra Giovanni, ti stavamo aspettando.»
C’è qualcosa, nei loro musi lunghi e negli sguardi sfuggenti, che mi mette agitazione. Qualcosa che non riesco ad afferrare.
Barbara inizia a parlarmi della situazione aziendale, della crisi che perdura e non accenna a terminare. Parla in modo chiaro, diretto, scivolando solo poche volte nel gergo aziendalese che tanto inquina le nostre menti; soprattutto mi guarda mentre mi parla e riesce quasi a mettermi a mio agio, nonostante la ruvidezza dei dati e delle informazioni su cui richiama la mia attenzione.
A tenermi in allarme sono quegli altri due. Simone è visibilmente impaziente, ha l’aria di avere un sacco di cose da fare che lo aspettano fuori da quell’ufficio, cose forse più importanti o meno sgradevoli. Antonio è sfuggente, posa lo sguardo dappertutto tranne che su di me, salvo poi lanciarmi qualche occhiata obliqua quando mi vede più coinvolto dalle parole che Barbara continua a pronunciare con tono grave, ma calmo e professionale.
«Insomma abbiamo bisogno di investire sui giovani» è la conclusione su cui atterra il lungo preambolo del direttore del personale.
«Sui giovani?»
«Sì sui giovani» risponde lei. E per la prima volta si sente nella sua voce un tono più secco, guardingo, tipico di chi non vuole concedere il minimo spazio a obiezioni, dubbi o esitazioni.
«Be’, anch’io penso che dovremmo tornare ad assumere qualche giovane, e valorizzarli anche. Ma ultimamente mi sembra che l’azienda, per i motivi che tu poco prima ricordavi, faccia largo utilizzo di stage e contratti a termine perché non ci sono soldi da investire su di loro, come qualcuno meriterebbe. Ad esempio, quel giovane ingegnere che ho seguito per tre mesi, come si chiamava…»
«Il punto è proprio questo, Giovanni» dice Barbara.
Ma Antonio non ce la fa più e la interrompe: «Giò, tu sei qui da una vita!»
«Venticinque anni oggi.»
«Oggi? Be’, ecco, no, questo non lo sapevo. Congratulazioni ragazzo! Però, insomma, sono proprio tanti anni, sai come vanno le cose… Abbiamo lavorato benissimo insieme e tu sei stato tra i migliori, Giò. All’inizio, quando sono arrivato e mi hanno assegnato la guida del tuo ufficio, non ci siamo subito presi bene, ma poi tu mi hai insegnato tante cose, abbiamo imparato ad avere fiducia reciproca e io non ho proprio nulla di cui lamentarmi.»
«Insomma, merito un premio.»
«Antonio intende dire che non c’è nulla di personale in ciò che ti stiamo per comunicare» interviene Barbara con un sorriso. Ma il suo sguardo quasi incenerisce il mio capo che non osa proseguire.
«Ma…» provo a dire. Ma lei mi interrompe subito.
«Ascolta, Giovanni, abbiamo deciso di rinnovare l’organico aziendale. Dobbiamo partire necessariamente dai dipendenti più anziani e più costosi, e tu sei uno di quelli. Lo so che è un colpo durissimo per te e non credere che l’azienda non apprezzi tutto ciò che hai fatto in questo tempo, ma abbiamo delle direttive da seguire e io sono qui per applicarle. Quello che dobbiamo fare adesso è trovare la soluzione migliore per te e per l’azienda per cui hai lavorato per tanti anni.»
«La soluzione? Ma quale soluzione? Quest’azienda è la mia vita. È il mio lavoro. Cosa faccio fuori di qui? Dove vado?»
«Giovanni, purtroppo a volte si devono affrontare dolorose necessità. Ti ho fatto un riassunto delle gravi difficoltà che stiamo attraversando. Credimi, senza questo tipo di interventi, qui rischiamo di andare a fondo tutti quanti. Prima di ricorrere alle procedure previste dalla legge e a licenziamenti collettivi, cerchiamo di intervenire chirurgicamente su singole posizioni. È per il bene di tutti.»
«E cosa sono io, un tumore? E poi, a proposito di procedure previste dalla legge, mi potete mettere alla porta così? Non c’è uno statuto dei lavoratori? Non ci deve essere una giusta causa?»
Dopo un sospiro, Simone smette di pensare ad altro e con voce stentorea mi precisa che l’azienda intende sopprimere la mia funzione. Non c’è bisogno di giusta causa. Semplicemente, l’azienda ha deciso che il mio lavoro non serve più. La mia casella sparisce dall’organigramma, e io con lei. Venticinque anni cancellati, domani è un altro giorno.
Mi sottopongono un accordo. Se firmo, ottengo una buonuscita equivalente a qualche mese di stipendio ed evitiamo di andare in tribunale. E c’è il loro impegno a cercare qualche possibilità di inserimento per me, utilizzando i loro network aziendali e professionali, così li chiamano.
«Quando dovrei andarmene?»
«Oggi.»
Leggo e rileggo la loro proposta, ma non riesco a capire nulla, non riesco a fare calcoli, avverto un forte senso di nausea mentre mi sale un groppo in gola che mi annebbia la vista.
Barbara mi vede esitante, apparentemente pensieroso e indeciso. In realtà completamente sconfortato e annichilito, impaurito persino. Lei vuole metterci una parolina di incoraggiamento.
«Coraggio, Giovanni, tua figlia apprezzerebbe. Non sta per iniziare a lavorare anche lei? È il momento di far spazio alle nuove generazioni, ai nostri figli.»
La guardo. Cosa ne sa di figli, questa qui? È arrivata da noi che aveva trentacinque anni, ora ne ha quaranta. Pallida, biondina, tratti spigolosi, poco trucco, abbigliamento sobrio: l’efficienza fatta persona. La parola “figli” non c’entra nulla con lei, è qualcosa che non fa parte del suo mondo. E come si permette di parlare di mia figlia?
«No, non firmo. Non adesso, ho bisogno di tempo per pensarci.»
Mi hanno concesso una settimana, in via eccezionale e proprio perché sono io. Ma intanto devo lasciare libero l’ufficio.

Appena salgo in macchina mi fermo, mani sul volante, incapace di prendere qualsiasi direzione. Non so dove andare, cosa pensare, cosa fare.
Una lunga fila di giornate in apparenza uguali e ripetitive si è interrotta bruscamente facendomi assaporare già con nostalgia il significato di parole come noia, normalità e quotidianità. E sperimento quanto possano essere vuoti e molesti certi refrain che da qualche tempo flagellano le nostre vite: novità, sfida, cambiamento. Non ho più alcuna certezza, ma dentro di me sento salire il rumore sordo della rabbia e la voglia di vendere cara la pelle.
Vengo scosso e riportato alla realtà dalla suoneria del mio cellulare. Sul display vedo che si tratta di mio padre e, dopo un attimo di indugio, rispondo.
Si è rotta la caldaia e nel suo appartamento, che guarda verso nord, sta gelando. Mio padre ha ottant’anni, soffre di reumatismi e vive da eremita nella stessa casa di sempre, in periferia. Sa che in garage abbiamo ancora una vecchia stufa che può essergli utile.
«Ma non ti disturbare.»
«Figurati, vengo subito. Ti fermi a dormire da noi e poi domani, se vuoi, riparti.»
«Ma no!»
«Ma sì!»
La vita continua, questo è ciò che ci salva sempre.

Ho proprio voglia di rivedere mio padre e ho anche voglia di sentire qualcuno dei suoi proverbi, delle sue massime che per anni ho sbeffeggiato come residuati di guerra.
Quando aveva cinquant’anni, mio padre mi sembrava già vecchissimo. Quest’anno ho raggiunto anch’io quell’età e ho fatto la metà delle cose che aveva fatto lui. Mi hanno appena detto che per me la festa è finita e io non mi sono nemmeno accorto di quando è cominciata.
Vorrei convincere mio papà a venire ad abitare un po’ più vicino a noi, ma lui è attaccato a questi ciuffi d’erba che sembrano sintetici, e difficilmente verrà via. Questa volta però non ho voglia di parlare; lo faccio sempre io, e adesso ho solo voglia di ascoltarlo.
Inizierà a martellarmi con qualche luogo comune, qualche frase da sala d’attesa su cui lui è abilissimo a costruire sentenze, prevalentemente di condanna dell’intera umanità. A suo tempo l’ho irriso per questa sua mania di sprecare il tempo a parlare di cose così, senza importanza. E invece capisco quanto possa essere riposante, a volte. Sembra che uno dica niente, e invece poi ci ripensi e ti accorgi che c’è sempre un significato. Soprattutto ti distendi, lasci che le parole ti scorrano addosso come l’acqua nella doccia.
Cosa mi dirà oggi, mentre lo accompagno a casa nostra? Forse guarderà il sole, i ragazzi a spasso in maglietta, l’accenno di germogli sugli alberi e la neve ammucchiata negli angoli. E poi, magari, dirà proprio quella frase là: che tempi, davvero non ci sono più le mezze stagioni.

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