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domenica 22 maggio 2016

Pensare bene, per vivere meglio



Cosa sono le “emozioni distruttive”? A cosa servono? Sono necessariamente un male? A quali conseguenze portano?  In che modo si possono superare? Quanto dipendono da fattori ambientali e culturali? In che modo gli individui si differenziano nel provare e riconoscere le emozioni? Ci può essere un’educazione alla felicità?

Questi sono solo alcuni degli interrogativi a cui ha cercato di rispondere un gruppo formato da una dozzina di scienziati occidentali e di monaci tibetani, che si sono incontrati a Dharamsala, dove risiede il Dalai Lama, per cinque giorni di dibattito nel marzo del 2000.


Daniel Goleman, lo psicologo americano celebre per i suoi studi sull’”Intelligenza emotiva” ha riassunto dettagliatamente questa esperienza, collegandola agli studi che la precedettero e agli sviluppi scientifici che ne seguirono, nel saggio “Emozioni distruttive, liberarsi dai tre veleni della mente, rabbia desiderio e illusione” pubblicato nel 2003.



La scoperta scientifica, che si colloca a fine anni Novanta, che ha reso questo incontro particolarmente proficuo e ricco di potenzialità per il futuro, è la plasticità del cervello, la sua capacità di rinnovarsi e modificarsi per tutta la vita. Risale solo al 1998 la dimostrazione che negli esseri umani nascono nuovi neuroni per tutto il corso dell’esistenza. Non solo: i nostri pensieri, le nostre emozioni sono in grado di modificare il cervello e dunque possono condizionare i pensieri e le emozioni successive. Allenarsi a pensare bene ci abitua a pensare meglio in futuro. Non lo dicono (solo)  filosofi morali e monaci, ma (anche) medici e scienziati, e non in base a teorie o assiomi, ma a seguito di ricerche, esami di laboratorio e sofisticati esperimenti.


Il gruppo di lavoro di Dharamsala, marzo 2000
La cultura buddista, fondata sul concetto di meditazione e di compassione, è un ambito particolarmente fertile per studiare gli effetti che un adeguato allenamento emotivo è in grado di produrre sulle funzioni cerebrali e in definitiva sulla nostra salute. Come a Goleman fu profetizzato negli anni Settanta del secolo scorso, il buddismo si è introdotto in Occidente soprattutto per mezzo della psicologia. Determinate tecniche di meditazione ottengono un effetto sulla capacità di controllo delle nostre emozioni distruttive pari o superiore a quello dei farmaci, evitandone effetti collaterali, assuefazione e dipendenza.


La psicologia in Occidente nacque come osservazione e cura di stati patologici e per decenni si è concentrata sugli stati mentali insani, trascurando gli stati mentali che producono felicità e benessere. La ricerca del bene, o della felicità, in Occidente è stata lasciata ai filosofi morali e ai teologi. Solo in epoca relativamente recente,  anche grazie ad aperture e dialoghi di questo tipo con la cultura orientale, se ne stanno occupando anche medici e scienziati.


Sul concetto di “negatività” di un’emozione, ad esempio, cultura occidentale e cultura buddista hanno visioni diverse. In Occidente si parla di “emozioni distruttive” pensando alle conseguenze pratiche e materiali che esse esercitano su chi le prova e su coloro che le subiscono. Oppure si guarda all’appropriatezza delle emozioni:  è normale provare tristezza per la morte di un proprio caro, ma il depresso l’assume come stato d’animo permanente.

Per la cultura buddista invece la negatività è già implicita nell’offuscamento della mente, che quando è libera dalle emozioni è lucida e brilla come oro. Più che di emozioni, il buddismo preferisce parlare di “afflizioni mentali” che impediscono di vedere chiaramente le cose e in questo sta la loro carica negativa. 


Non c’è nella cultura buddista una così netta distinzione tra pensiero ed emozione. E in effetti, recenti esperimenti hanno dimostrato che le zone del cervello stimolate dai pensieri e dalle emozioni sono le stesse. Ciò fornisce evidenza scientifica al concetto largamente diffuso nella sapienza popolare che quando siamo in preda ad un’emozione pensiamo male e dobbiamo prima calmarci. 


Come dice un proverbio toscano, non si può soffiare e succhiare nello stesso momento. Allo stesso modo, ad esempio, non si può provare contemporaneamente odio e amore. Gli “antidoti” per le emozioni distruttive sono quindi le emozioni positive di natura opposta. Più si sarà in grado di coltivarle, più si potrà riconoscere l’emozione negativa come una semplice nube inconsistente, passeggera, dietro alla quale il sole continua a brillare. Un uccello che attraversa il cielo senza lasciare traccia, un disegno fatto sull’acqua, che subito scompare. Quando cominci ad abituarti a riconoscere i pensieri quando insorgono, è come riconoscere velocemente qualcuno che conosci in mezzo alla folla. Oh, sta arrivando quel pensiero. E’ il primo passo per evitare di esserne sopraffatti.

Più ci si allena a produrre stati mentali positivi, come ad esempio la compassione, più questi diventano un’abitudine e anche una base per controllare meglio le emozioni distruttive. E l'attenzione agli altri, il riconoscimento delle loro emozioni, ci permetterà di sentirci meno indifesi di fronte alle nostre.


Nelle scritture buddiste si parla di ottantaquattromila tipi di emozioni negative, che si riconducono tuttavia a cinque principali: odio, attaccamento, ignoranza, orgoglio e gelosia. Secondo una prospettiva occidentale ci potrebbe essere qualche difficoltà a includere nell’elenco l’attaccamento e l’ignoranza. Le diverse visioni sull’attaccamento derivano da una concezione dell’ego molto più forte nella cultura occidentale. L’ignoranza invece viene considerata dal buddismo un aspetto della mente che provoca afflizione perché impedisce un riconoscimento lucido e vero della realtà.


Tutte le emozioni, anche quelle negative, hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo per la sopravvivenza e per l’evoluzione della specie, come già affermato da Darwin nel 1872 (“L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali”). Essenzialmente il ruolo dell’emozione è quello di indurci ad agire rapidamente, senza fermarsi a pensare, cosa che in alcune situazioni può essere di vitale importanza. Tuttavia le differenze biologiche individuali e le esperienze fatte espongono alcune persone ad una maggiore difficoltà nel controllo delle proprie emozioni. 


La zona del cervello preposta al controllo delle emozioni si trova nell’area prefrontale, l’ultima emersa nel corso dell’evoluzione. Le zone della corteccia frontale sinistra svolgono un ruolo importante per le emozioni positive, mentre il lobo frontale destro lo svolge per le emozioni negative. L’amigdala, che è una parte più primitiva del nostro cervello, è fondamentale per i circuiti che attivano l’emozione stessa. Infine l’ippocampo, che si colloca tra l’amigdala e la zona prefrontale è dedicato alla comprensione del contesto delle emozioni e alla loro memoria. Dunque quando proviamo un’emozione sono molte le zone del nostro cervello ad entrare in azione.


La manifestazione delle emozioni, tramite i nostri muscoli facciali, e tramite le nostre reazioni fisiologiche, è universale in tutto il mondo e in tutte le culture, sono state fatte interessanti ricerche a questo proposito, tuttavia ci sono notevoli differenze individuali circa la velocità e intensità con cui le emozioni si manifestano e anche circa la durata dei loro effetti. Differenze genetiche, ma  pur sempre modificabili con le esperienze e la pratica. 


Nell’individuo che riesce a recuperare più velocemente dopo un’emozione si riscontra  un livello più basso di cortisolo, che è un ormone che si produce in condizioni di stress, e anche una migliore funzionalità di certi aspetti del sistema immunitario. Insomma, qui troviamo anche il riscontro scientifico del detto popolare che lasciarsi vincere dalle emozioni negative rende il sangue amaro, mentre il sorriso e una sincera attenzione agli altri vanno anche a vantaggio della nostra salute.


Nel lungo e denso resoconto che Goleman ha fatto degli incontri di Dharamsala (impossibile sintetizzare tutto in poco spazio) mi hanno colpito soprattutto le relazioni di Richard Davidson, pioniere della neuroscienza affettiva, di Paul Ekman, psicologo e più grande esperto mondiale del riconoscimento delle emozioni sul viso delle persone  (è stato ovviamente consulente delle forze dell’ordine e dei servizi segreti), di Matthieu Ricard, monaco buddista, scienziato, figlio del filosofo francese Jean François Revel (insieme a lui scrisse il pamphlet “Il monaco e il filosofo”, dialogo su scienza e spiritualità) e Mark Greenberg psicologo specializzato in programmi di apprendimento sociale ed emotivo per bambini. Molto interessante anche il primo capitolo, che spiega dettagliatamente gli esperimenti svolti da Davidson e da Ekman sul controllo delle emozioni di un monaco tibetano, il Lama Öser. Tali esperimenti seguirono i colloqui di Dharamsala e portarono ulteriori riscontri scientifici a molte delle tesi discusse.


Segnalo anche quest’ottima recensione che ho trovato sul web: 
 http://www.corem.unisi.it/bibliografia/recensioni/goleman_emozioni_distruttive.pdf

Matthieu Ricard
Richard Davidson


Mark Greenberg





mercoledì 29 gennaio 2014

La testa piena




Dal Breviario Laico del card. Ravasi
(Il Sole 24 Ore - Domenica 26 gennaio 2014)

Plutôt la tete bien faite que bien pleine!

Ancora una volta con Montaigne e i suoi Saggi (I,25) bisogna semplicemente reagire con un touché! Soprattutto ai nostri giorni segnati da una bulimia "informatica" e da un’anoressia formativa: teste colme di dati e prive di pensiero.
Continuava il filosofo: "In verità la preoccupazione e l’investimento dei nostri padri mira solo ad arredare (meubler) la testa di conoscenze. Di capacità di giudizio e di virtù, manco a parlarne!".
Cervelli ammobiliati di dati, pronti a trasformarsi in panieri in cui si affastellano verità e menzogna, stupidaggine e saggezza, tesi e contro tesi: è un po’ questa la sorte di tanti giovani e adulti incollati per ore al computer. E invece ci sarebbe bisogno prima di tutto di "travailler à bien penser", come dirà un ideale collega di Montaigne, Pascal, nei suoi Pensieri (n.347), cioè impegnarsi non tanto ad essere benpensanti, ma a pensare bene, con rigore e sostanza, perché è questo "il principio della morale”

martedì 17 settembre 2013

Sarah Bakewell - MONTAIGNE, L'arte di vivere

La filosofia è un campo del sapere che attrae pochi appassionati. Non gode di buona fama presso il grande pubblico. Sospettata di essere troppo astrusa, sganciata dalla realtà e dai problemi di tutti i giorni. Noiosa. Difficile. Con tutto quello che abbiamo da fare poi...
E' un vero peccato. Non c'è niente che abbia a che fare così tanto con la nostra vita, i nostri sogni, i nostri problemi, le nostre paure, le nostre speranze, le nostre fatiche, quanto la filosofia. Il problema è che leggere un testo di questo argomento richiede tempo, concentrazione, e una sufficiente dose di curiosità e capacità di essere costanti, di seguire un percorso.
Fortunatamente, ogni tanto escono libri che ci aiutano "ad arrampicarci sulla pelliccia del coniglio" per cercare di vedere cosa c'è più in là, come "Il mondo di Sofia", il best seller anni '90 da cui è tratta questa metafora e che ha avvicinato tanti lettori a questo mondo affascinante.
Un libro di questo tipo è anche "Montaigne, l'arte di vivere" di Sarah Bakewall, uscito due anni fa nella collana "Campo dei Fiori" di Fazi Editori, dedicata alla spiritualità e alla filosofia.
Il libro è la fortunata combinazione della bravura della scrittrice inglese, molto abile a farci fare letteralmente amicizia con il filosofo francese, e della "raccontabilità" di Montaigne, che viene presentato, udite udite, un po' come un precursore di Facebook.
E' stato notato che i social network permettono di conciliare due caratteristiche piuttosto diverse tra loro: possiamo infatti essere "straordinariamente introspettivi" e allo stesso tempo "estroversi impenitenti". Possiamo annotare su un diario ogni più intima emozione e un secondo dopo condividerlo con l'umanità intera.
"Questa idea - scrive la Bakewell - scrivere di se stessi per offrire agli altri uno specchio in cui riconoscere la propria umanità, non esiste da sempre. L'ha dovuta inventare qualcuno": Michael Eyquem de Montaigne. Nei suoi Essais, centosette scritti di argomenti diversissimi tra loro, partiva dalle proprie esperienze personali per cercare di rispondere alla domanda: "come vivere?" (in questo, già distinguendosi dagli altri filosofi che si pongono invece il problema: "come dovremmo vivere?").
Spiega ancora la Bakewell: "Anche se non si tirava indietro di fronte alle questioni morali, Montaigne era più interessato a ciò che la gente faceva rispetto a quello che avrebbe dovuto fare. Voleva sapere come vivere una buona vita: corretta e onorevole, sì, ma anche pienamente umana, appagante e prospera."
Il giornalista Bernard Levin, in un articolo sul Montaigne apparso sul Times nel 1991 ha scritto: " sfido qualunque lettore di Montaigne a non mettere giù il libro a un certo punto per domandarsi incredulo: come fa a sapere tutte queste cose di me?"
Conclude la Bakewell nella sua bella introduzione: "I Saggi, dunque, sono più di un semplice libro; sono una conversazione attraverso i secoli tra Montaigne e tutte le persone che si sono imbattute in lui: una conversazione in continua evoluzione, che si rinnova ogni volta che un nuovo lettore si domanda incredulo: come fa a sapere tutte queste cose di me?"


Sarah Bakewell - MONTAIGNE, L'arte di vivere, Fazi Editore, 2011, 443 pagg.