lunedì 16 settembre 2013

L'estate di Alberto ed Enrica


Dopo "Tango", ho scritto "L'estate di Alberto ed Enrica" L'occasione è stata il concorso lettarario "Io Scrivo" del Corriere della Sera a cui ho partecipato nell'aprile 2011.
Da tempo volevo scrivere una storia ispirata a una persona che incontravo spesso nel paese in cui abito da alcuni anni.
Si tratta di un signore anziano, che è solito spostarsi pedalando su un vecchio motorino, ogni volta trainando carichi molto pesanti di legna, rottami e materiali di ogni tipo. Un tipo originale, che mi sembrava fornire un'ottima idea narrativa.
L'altro spunto è una parola rubata.
Un'amica di mia figlia Alessia, allora dodicenne, giocando inventò la parola Karabua. Me ne appropriai, le trovai un significato e la inserii nella storia, che ormai aveva preso i connotati della fiaba.
I racconti completi del concorso del Corriere della Sera li trovate qui: http://www.corriere.it/ioscrivo/pagine/ricerca.shtml
Il vincitore è stato Matteo Colombo, con il racconto "Magari Disturbiamo". A me è piaciuto molto anche "L'estate infinita" di Carlo Deffenu.
Il mio racconto, L'estate di Alberto ed Enrica, lo inviai utilizzando lo pseudonimo di Ettore Di Domenico.




L’estate di Alberto ed Enrica

Quell’estate faceva molto caldo e con mia sorella andavo spesso a giocare giù al fiume. Prendevamo le bici e ci facevamo rotolare per tutta la bianca discesa polverosa che correva dal campo di granoturco fino al limite del bosco, ridendo e gridando per le buche, i sassi e l’erba alta.

Al fiume trovavamo sempre qualcuno con cui scherzare i pescatori, schiamazzare o fare mille discorsi come i grandi; poi tornavamo a casa e mia sorella ripeteva tutto alla mamma, che spesso rideva, ma qualche volta mi menava.

Un giorno andò tutto diversamente.

Avevamo appena superato la curva dopo la Cascina Zoppo, quando Enrica credette di aver visto la volpe, frenò e cadde dalla bicicletta. Alla Cascina ci diedero dell’acqua e un cerotto grande così, ma lei non volle più andare al fiume. Diceva che la bici era rotta: non era rotta, erano tutte scuse per giocare con i gattini della Lea, ma io non avevo voglia di fermarmi e allora tornammo verso casa con il broncio, io davanti e lei sempre appresso e il sole andava e veniva da dietro le nuvole come una lampadina guasta.

Quelli erano i brutti momenti in cui dovevo soffocare la voglia di strozzare la mia amata sorellina e portarla invece sana e salva tra le braccia della mamma.

L’ideale sarebbe stato smaterializzarsi come Harry Potter, ma purtroppo tutta la polvere magica e tutte le scope volanti di Hogwarts non sarebbero bastate a portarmi lontano quanto volevo in quel momento.

No, non sto esagerando: certe volte mi viene proprio da chiudere gli occhi e sognare di vivere in un mondo diverso.

Dite un po’, ma voi ci credete ai maghi? Voglio dire, non sto parlando di Mago Merlino, Gargamella o Albus Silente, e neanche di quegli imbroglioni da circo, buoni solo per i bambini dell’asilo. Io intendo qualcuno che ogni tanto sappia fare qualcosa che voi non riuscite a spiegare, qualcuno che vi lasci a bocca aperta, vi sorprenda e vi costringa a pensare: “wow, questa non me l’aspettavo!” Facile? Beh, state a sentire perché adesso viene il bello.

Dunque eravamo lì, io e l’Enrica su quella strada che non finiva mai, e ci trascinavamo sulle bici e io mi immaginavo già a casa a vedere la tele e avrei bevuto tutta l’acqua del mondo.

Distrattamente cominciai a far caso ad un cigolio che con ritmo regolare si faceva avanti tra il suono monotono e stridulo delle cicale. Qualcosa si stava avvicinando e tra poco sarebbe spuntato dietro di noi, oltre l’ultimo dosso.

Un vecchio minuscolo pedalava ingobbito, la testa candida infossata tra le spalle, trainando un enorme carro, su cui erano accatastate così tante balle di fieno da sembrare una montagna. Il vecchio era sulla sella di un pesante motorino, marrone per la ruggine, il fango e il tanto tempo trascorso tra i rottami. Lo usava come una bicicletta e pedalando con calma, senza affanno, riusciva a trasportare il carico di un trattore. Ci superò senza nemmeno guardarci e scomparve in una nuvola di polvere dietro il muro di cinta della rimessa abbandonata, appena fuori dal paese.

“Guarda Alberto: quel signore ha perso qualcosa”, disse Enrica chinandosi a raccogliere un quaderno con la copertina blu e il disegno dei sette nani.

“Dai qua, fammi vedere.”

“Aspetta, l’ho visto prima io!”

Nella prima pagina del quaderno, dietro la copertina, c’era il disegno di un bosco e poi una scritta a penna: Matteo Fiore, classe 3B .

“Matteo, il fratello di Sofia, la mia compagna di classe! Ma allora quel signore deve essere suo nonno, non sapevo che ce l’aveva.”

“Che ce l’avesse, semmai. E poi tutti hanno un nonno, oppure l’hanno avuto: il tuo Matteo non sarà spuntato da un cavolo, no?”

“Uh Alby, quanto sei noioso…Piuttosto fammi pensare, forse suo nonno abita lontano ed è venuto a trovarli per le vacanze.”

Enrica a otto anni era già uguale alla mamma e doveva avere il perfetto controllo della mappa famigliare di tutto il vicinato.

Sfogliai qualche pagina, poi dissi:

“Ma perché suo nonno se ne va in giro con il quaderno di Matteo sotto il fieno?”

“Boh, magari sotto il fieno c’era pure Matteo.”

“Ma va là sciocchina!”

“Ehi, questi sembrano compiti per le vacanze, guarda qui: I nomi concreti e astratti – analisi grammaticale, esercizio a pagina 72 del libro Codalunga.”

“Furbo questo Matteo – sghignazzai – mi ha dato un’idea per far sparire quel mezzo quintale di espressioni matematiche che mi stanno rovinando le vacanze...”

“Eh già,” fece la mia sorellina “ma noi dobbiamo restituirglielo, questo bel quaderno. Intanto portiamolo a casa, poi lo diciamo alla mamma.”

Non avevamo ancora percorso metà del vialetto prima della piazza del mercato che ce lo trovammo davanti.

Era piccolo, poco più alto di Enrica, con la faccia rossa, un gran nasone e gli occhi sporgenti. Sorrise e allargò le braccia come per dire “Eccovi, finalmente!”

“Cari ragazzi,” attaccò “vi ringrazio moltissimo, sono proprio un vecchio sbadato, guardate che guaio stavo combinando.”

Parlava come se stesse raccontando una barzelletta da morir dal ridere e intanto si scrollava la polvere dalla tuta di tela blu, che con ogni probabilità indossava da diverse settimane. Istintivamente mi feci più vicino ad Enrica, passandole un braccio attorno alle spalle.

“Oh che bellezza! E tu come ti chiami?” disse l’omino posando una grossa mano sui capelli di mia sorella.

Enrica rispose guardandogli i piedi (calzava dei buffi scarponi pelosi, che dovevano tenere un caldo pazzesco) poi alzò timidamente lo sguardo e gli chiese: “Tu sei il nonno di Sofia?”

“No piccola, non sono il nonno di Sofia,” rise il vecchio “anche se in un certo senso sono il nonno di tutti i bambini e anche di parecchi adulti.”

“Nooo, Babbo Natale?!” esclamò Enrica.

“Ah, ah, buona questa!” fece lui “Beh, piccola mia, non ho l’abitudine di guardarmi molto allo specchio, ma non mi pare che mi sia cresciuta la pancia, né una lunga barba bianca. Adesso che ci penso, non ho neanche un vestito rosso. Sai una cosa? Io dico che Babbo Natale sta ancora riposando dopo le fatiche di quest’inverno, in un posto freddissimo, lontano e misterioso. Lasciamolo lì tranquillo.”

E poi aggiunse: “Ad ogni modo, io sono Osvaldo.” E così dicendo fece un buffo inchino, che mi fece un po’ perdere la pazienza.

“Senta signor Osvaldo,” sbottai “se lei non è il nonno di Sofia e di Matteo, perché si porta a spasso i loro quaderni di scuola?”

Il vecchio mi fissò per un lungo istante, poi rispose: “E’ una buona domanda, Alberto.”

“Ma come fa…per la verità non le ho ancora detto il mio nome!”

“Già, Alberto Mella, classe I C, appassionato lettore di Harry Potter, ti piacciono epica, storia e la biondina del terzo banco; detesti matematica, sei un disastro con la musica, a calcio ci provi, ma con risultati discontinui. Ti riconosci?”

Stavo cercando di rispondere, ma fui interrotto da uno zampettare velocissimo accompagnato dal suono di un campanellino e subito dopo apparve un barboncino bianco, magrissimo e tutto spelacchiato.

“Oh, ecco Stecca che mi viene a cercare. Giù, bello, giù. Adesso vengo, lasciami prima salutare questi piccoli amici.”

Ci guardò in silenzio, poi sorrise ancora una volta e disse:

“Sentite, mi è venuta un’idea, perché non si va tutti a fare merenda alla vecchia filanda?”

“La vecchia filanda?” chiesi dubbioso “Ma se quel rudere sta cadendo a pezzi! Tra poco la demoliranno completamente.”

“Perbacco, questo sì che è un problema. E dopo, dove andrò a vivere?”

“Davvero? Tu abiti alla vecchia filanda?” chiese Enrica con occhi rotondi di stupore e di curiosità.

“Puoi ben dirlo, e con me ci sono Stecca, Palla di cotone, Testa di legno e tanti altri amici ancora: se venite con me ve li faccio conoscere.”

“Il fatto è che la mamma non sarebbe contenta” mormorò Enrica.

“Oh, la tua mamma è stata bambina anche lei; ad ogni modo possiamo passare ad avvisarla. La saluterò con piacere e lei sarà contenta che finalmente anche voi avete incontrato il vecchio Osvaldo.”

“Tu conosci davvero la mamma?” domandai.

“Te l’ho detto,” spiegò paziente “io conosco tutti. Però se volete venire dobbiamo sbrigarci, perché si sta facendo tardi.”

Andò così: in pochi minuti raggiungemmo la nostra casa, formando una strana carovana, aperta dall’anziano ometto a cavallo del suo motorino, che pedalava trainando il carro con la montagna di fieno. Stecca gli trotterellava di fianco, Enrica lo seguiva con l’aria di sentirsi un po’ Alice nel Paese delle Meraviglie e infine io chiudevo la fila, ancora incerto di aver fatto la cosa giusta, ma ormai preso dallo spirito dell’avventura.

Quando citofonammo alla mamma, lei disse subito: “Osvaldo, che meraviglia! Sì ragazzi, andate e divertitevi.”

Andate e divertitevi: quella giornata sembrava l’inizio di un nuovo mondo. Nemmeno una piccola raccomandazione. Che so: non mangiate troppo, state attenti, tornate presto… Niente: andate e divertitevi.

La vecchia filanda si trova a ridosso di una delle piccole colline che circondano il paese e per molti anni la gente si è divisa tra favorevoli o contrari a costruirci un centro commerciale.

Con l’andar del tempo, in tutta la zona sono sorte decine di casette con giardino e l’unica via di accesso alla fabbrica è rimasta una stretta stradina percorribile soltanto in bicicletta o a piedi, ma ormai nessuno ha più l’abitudine di andarci. Papà dice che stanno aspettando di avere l’autorizzazione per abbattere ciò che resta e costruire ancora qualche villetta.

Appena varcammo il cancello e ci trovammo nel vasto cortile sterrato, compresi che quel luogo non era affatto abbandonato come si diceva. C’erano degli attrezzi sparsi per tutta l’aia e altri appoggiati al muro sotto il porticato; nell’angolo di fianco alla ciminiera era ammonticchiato un cumulo di rottame e poi assi di legno, mattoni, pneumatici, enormi ceste di frutta e verdura, sacchi di cemento.

L’edificio sembrava essere stato ristrutturato in fretta, in modo disarmonico e raffazzonato, come un castello di sabbia a cui avessero lavorato più bambini in diverse riprese, e metteva allegria per la grande varietà di colori e per le forme bizzarre che lo caratterizzavano.

Mentre attraversavamo il cortile, si sentivano voci e rumori di cantiere in piena attività. Una specie di folletto vestito di rosso comparve da un varco tra due file di cassonetti spingendo una carriola, e pochi secondi dopo era già sparito oltre una delle aperture sbilenche che avevano sostituito la fila regolare di porticine anticamente esistenti.

“Ehi, avete visto quello?” gridai.

“Certo,” disse Osvaldo parcheggiando il suo motorino vicino al colonnato “tra poco avrai il piacere di conoscere Alberico e tutta la compagnia dei karabua.”

“I kara che…?”

Stavolta Osvaldo non rispose, ma si limitò a fare un segno con la mano come per dire: “inutile parlare, seguitemi”.

Ci fece entrare in uno stanzone fresco, in penombra, dal persistente odore di segatura e di vernice, nel quale erano all’opera decine di quei piccoli gnomi, tutti vestiti con colori sgargianti e affaccendati lungo alcuni tavolacci o alle prese con diversi macchinari.

“Questa è l’officina” disse Osvaldo allargando le braccia. Poi, raddrizzando le spalle più che poteva, proseguì: “E questi sono gli amici karabua”.

Era uno spettacolo davvero incredibile. Da tutte le parti sbucavano questi omini alti meno di un metro, grinzosi e arruffati, che come formiche operose saldavano tubi e giunture, verniciavano mobili, riparavano lavatrici, smontavano motori. Era come se diverse fabbriche fossero state mescolate a casaccio e si fossero riunite non troppo disordinatamente in quel luogo, dove ogni cosa sembrava svolgersi con calma e leggerezza.

“Tanti anni fa” iniziò a raccontare Osvaldo “in questo posto venivano a lavorare molti bambini, e soprattutto bambine, insieme alle loro mamme. Venivano da tutta la campagna e lavoravano per 14 o 15 ore al giorno in condizioni malsane, continuamente sorvegliati e puniti se non lavoravano abbastanza duramente. Poi tornavano a casa, dormivano appena poche ore e il giorno dopo ricominciavano, e così succedeva per sei giorni alla settimana. A volte lavoravano anche di notte, il cibo era insufficiente, la fatica disumana e frequentemente si ammalavano, o si ferivano durante il lavoro per la stanchezza, l’impreparazione e per i maltrattamenti dei sorveglianti.”

“Ma perché non scappavano?” chiese Enrica

“Perché avevano bisogno di lavorare” rispose Osvaldo “se non volevano morire di fame insieme a tutte le loro famiglie.”

Poi continuò: “Quando la filanda fu abbandonata, i karabua, spiriti liberi che vivono nei boschi, decisero di venire qui per rendere omaggio alla sofferenza e al sacrificio di tante persone e aprirono questa officina dei mille mestieri, dove ogni giorno svolgono il lavoro che la gente del paese non può, non vuole o non sa più fare.”

Nel frattempo il folletto vestito di rosso che avevo notato in cortile si era avvicinato e quando Osvaldo lo vide, lo chiamò e disse:

“Ecco il capo dell’officina, che sa fare tutti i lavori del mondo, anche quelli ormai dimenticati. Dai Alberico, fai vedere a questi ragazzi come si battevano una volta le monete.”

Il nuovo venuto aveva un piglio molto tranquillo, gli occhi leggermente tristi e l’aria di chi non è abituato a parlare.

Ci accompagnò davanti a un alto ceppo di legno che aveva una cavità rotonda nel centro. Ci mise dentro un corto cilindro di ferro che conteneva un pezzo di metallo rotondo e lo chiuse inserendoci una specie di pistone. Poi prese un grosso martello e un attrezzo simile a delle tenaglie, con il quale strinse il pistone per tenerlo fermo, mentre con l’altra mano dava un colpo secco di martello.

“Eccoci” disse, tirando fuori la moneta dal conio e mostrandola da entrambi i lati. “Certo, adesso bisognerebbe lucidarla.”

Presi in mano quella moneta e vidi che su un lato era rappresentato un leone e sull’altro un sole. Enrica diede appena una sbirciata e poi gli chiese: “Ma tu sei capace di aggiustare i computer?”

Alberico sorrise e rispose: “Ci posso provare, signorina.”

“Oh sì, ti prego: io non riesco mai ad usare il computer che abbiamo a casa, perché la mamma dice che si è rotto e il papà non vuole aggiustarlo.”

“Beh, Alberico te lo rimetterà a nuovo.” disse Osvaldo “Oltre ad essere abilissimo in tutto, tra poco lui sarà meno occupato, perché i karabua dell’officina domani estraggono a sorte il loro nuovo capo.”

“Estraggono a sorte?” chiesi.

“Sì, proprio così. L’idea è molto semplice. I karabua pensano che sia un peccato che le persone rovinino se stesse e gli altri lottando per la supremazia. Anche la filanda era un modo che pochi uomini avevano per imporsi su molti. I karabua sono più pacifici degli umani e ritengono che chiunque, se messo nella situazione di dover dare il meglio di sé, normalmente ci riesca. Non c’è bisogno di competizione.”

“E poi, quando ci sono tante cose da fare,” intervenne Alberico “è meglio avvicendarsi e imparare sempre qualcosa di nuovo.”

“Vedete – proseguì Osvaldo - uomini e karabua vivono sulla stessa terra, ma appartengono a mondi diversi. Gli uomini non potranno mai fare a meno dei karabua e del loro paziente e silenzioso operare. Ma anche i karabua, nella loro profonda saggezza, capiscono che il motore della civiltà finora sono stati la prepotenza, il vizio, il tradimento, la corruzione, ingredienti senza i quali pare che gli uomini non sappiano fare nulla di veramente grande.”

Osvaldo tacque, come se volesse continuare il discorso nella sua testa, e noi per qualche istante non osammo fiatare. Poi esplosi:

“Senti, tu sei bravo a chiacchierare, ma finora non ci hai detto nulla di Matteo e del suo quaderno e poi: non doveva esserci una merenda? Questi karabua saranno pure bellini e tutto quanto, ma noi quand’è che ci si diverte come avevi promesso?”

Osvaldo mi guardò e rise.

“Hai ragione, cucciolo d’uomo: chiacchiero troppo e noi dobbiamo ancora vedere tante cose, venite con me.” E così dicendo uscì dalla stanza.

Salimmo su una stretta scaletta dai gradini in pietra fino ad arrivare ad un pianerottolo sul quale si apriva una grande porta a vetri. Varcata la soglia, attraversammo un lungo e stretto corridoio con pareti piastrellate e qui incrociammo un giovane e rubicondo karabua, che indossava un lungo grembiule bianco. Osvaldo lo abbracciò e salutò calorosamente, poi disse:

“Carissimo Gioacchino, ecco due piccoli amici che non vedono l’ora di deliziarsi delle tue specialità, e io so che non li deluderai.” Poi, rivolgendosi a noi:

“Ragazzi, riuscite a pensare alla torta più buona che avete mai mangiato? Al gelato più cremoso? Al cioccolato dal gusto più prelibato? Ecco, cercate di ricordarvele bene tutte queste cose, perché il nostro Gioacchino ve le farà dimenticare per sempre, dato che riuscirà a farle cento, anzi mille volte più buone!”.

Gioacchino fece del suo meglio per schermirsi, ma guardandoci con occhi scurissimi e ridenti sembrava voler dire: “è proprio tutto vero!”

Come avrete capito, Gioacchino era il cuoco dei karabua, e le sua specialità erano il pane, a suo dire l’alimento più semplice, più fondamentale, la base dell’idea stessa di nutrizione, e i dolci, ovvero il regno della fantasia, del superfluo e della golosa ricercatezza.

Ci accompagnò in una grandissima cucina, grande almeno quanto l’officina, e anche qui vedemmo all’opera una grande quantità di karabua, maschi e femmine, e c’era chi impastava, chi sbucciava, chi mescolava, chi affettava, chi cuoceva in grandi padelle e tutto l’ambiente era invaso da mille odori e colori, amalgamati dalle voci dei piccoli cuochi, dal tintinnare delle stoviglie e dalla tremenda calura che regnava nell’ambiente.

Gioacchino aprì lo sportello di un grande frigorifero, stracolmo di ogni sorta di ghiottoneria: torte al cioccolato, dolci alla crema, gelati alla liquirizia, marmellate, focacce dolci e salate e tante altre cose ancora.

Ci dissero che potevamo assaggiare tutto ciò che volevamo e noi non ci facemmo troppo pregare; poi uscimmo sul ballatoio e Gioacchino ci parlò di alcune delle pietanze che stavano preparando in cucina. Allora colsi l’occasione per chiedere a chi erano destinate tutte quelle leccornie.

“Beh, le richieste non mancano!” rispose Gioacchino “Molte persone pensano che per cucinare ci voglia la bacchetta magica, come se questa torta che stai mangiando fosse il prodotto di una ricetta miracolosa e non del meticoloso lavoro di chi ha scelto con cura gli ingredienti, li ha selezionati con attenzione, li ha lavati, preparati, trasformati con passione e infine ha sorvegliato pazientemente sulla loro cottura, come una chioccia quando cova il suo uovo.”

“Sì, ma per fare cose così buone, ci vuole anche del genio” mugolai con la bocca ancora piena.

“Caro ragazzo,” intervenne Osvaldo “cos’è il genio, se non il lento distillato dell’amore che metti nella tua opera?”

“Non c’è dubbio” gli concessi, leccandomi minuziosamente tutti i polpastrelli che scoprivo di avere.

“Gioacchino,” intervenne Enrica “non ti viene mai la tentazione di mangiarle tutte prima di finirle, queste meraviglie?”

Gioacchino rise e poi rispose: “Quando fai qualcosa di bello e di buono, ti senti carico di energia e la soddisfazione che ne ricavi ti ripaga di ogni fatica. Anche a me piace molto mangiare – e si toccò la pancia prominente – ma il piacere della creazione è mille volte più intenso di qualche morso che si riesce a piazzare qua e là ogni tanto.”

“Però che caldo in quella cucina: davvero non invidio chi deve lavorare là dentro!” disse Enrica “Guardate piuttosto Stecca, che si è trovato un posticino niente male.”

All’ombra di una pianta oltre il recinto del cortile, il barboncino smilzo si stava strofinando la schiena sull’erba, muovendo il muso in tutte le direzioni. D’un tratto si rialzò e cominciò a correre in tondo, facendo ogni tanto dei salti e dimenando la coda.

“Che buffone,” disse Osvaldo “sta cercando di attirare l’attenzione di Palla di cotone, ma è tutta fatica sprecata, ormai dovrebbe saperlo.”

Poco più in là, sull’erba c’era una macchia chiara e gonfia, effettivamente sembrava una palla, che a un certo punto fece un movimento svogliato senza tuttavia spostarsi che di qualche millimetro.

“Sì,” disse Osvaldo “quello è Palla di cotone: è il gatto più pigro del mondo, se ne sta tutto il giorno a dormire e a mangiare, godendosi il fresco delle piante d’estate e il caldo della stufa d’inverno. Non fa un passo, non gioca, non emette suono, quasi non si muove. Abbiamo provato in tutti i modi a stuzzicarlo, ma lui niente, rimane immobile e si sta trasformando ogni giorno di più in una perfetta sfera, impermeabile a ciò che avviene attorno a lui e indifferente allo scorrere del tempo.”

Da una finestra aperta, nell’altra ala dell’edificio, giunsero delle note di pianoforte e si udirono voci, poi un paio di palloncini colorati superarono il davanzale e volarono in cielo. Due karabua corsero a vedere, parevano allarmati, ma poi scoppiarono a ridere e tornarono indietro.

“E lì cosa c’è?” chiesi.

“Lì si studia e ci si diverte” rispose Osvaldo.

“Beh adesso sembra che si divertano” disse Enrica.

“Già,” disse Osvaldo “andiamo a vedere.”

Scendemmo le scale di corsa e poi risalimmo da dietro il porticato. Al primo piano entrammo in una sala enorme, con il soffitto altissimo e ampie vetrate.

Tutti gli spazi alle pareti erano occupati da libri e alcuni karabua si arrampicavano su lunghissime scale per riuscire a prenderli.

Al centro della sala erano disposte molte file di banchi, e seduto ad ognuno di essi c’era un karabua intento a scrivere o a leggere. Ogni tanto qualcuno di loro sollevava il ripiano e tirava fuori ancora libri e quaderni, poi riprendeva il suo lavoro. Altri karabua passavano tra i banchi a distribuire carta, quaderni, penne e tutto ciò che serviva per i piccoli scrivani.

“Ma allora non è qui la festa” disse Enrica.

“Certo che è qui” rispose Osvaldo “questa è la stanza più preziosa per tutti i bambini del mondo.”

“Sarà,”bisbigliò Enrica “ma io sento puzza di compiti e di scuola e non mi sembra affatto divertente.”

“E il pianoforte? E i karabua che ridevano?” incalzai.

“Arriveremo anche a quelli, abbiate fiducia, però prima abbiamo un piccolo mistero da risolvere, giusto?”

Ci guardammo, perplessi.

“Il quaderno” fece Osvaldo “Alberto, adesso puoi darmelo, se vuoi.”

Continuavo ad avere tra le mani quel quadernone che mi era d’impiccio e glielo cedetti molto volentieri.

Osvaldo lo prese, poi chiamò una simpatica karabua con gli occhi azzurri e i lunghi capelli biondi e le disse:

“Matilde, ecco qui il quaderno di Matteo, c’è da fare tutta grammatica e un paio di testi, mi pare.”

“Allora è vero! I karabua fanno i compiti al posto dei bambini!” esclamò Enrica.

“ Sì stella, qualche volta può succedere” rispose Matilde.

“Ma ci sono alcune cose che dovete sapere” aggiunse Osvaldo “ci sono alcune regole, altrimenti non faremmo una cosa giusta.”

“Osvaldo, quali sono queste regole? Dimmelo ti prego!” fece Enrica.

“A volte succede” continuò Osvaldo issandola a sedere su un banco, “che un bambino, pur essendosi impegnato al massimo, proprio non riesca a terminare il suo compito.”

“Hai perfettamente ragione” interruppe Enrica.

“In questi casi i karabua accettano di finirlo al posto suo, oppure di correggerlo, insomma di dare un piccolo aiuto.”

“Ma è fantastico!”

“Il bambino però non lo saprà mai.”

“Cioè?”

“Non ti è mai capitato di avere la sensazione di non farcela a fare qualcosa, di essere vinta dalla stanchezza e poi, non si sa come, magicamente ti trovi ad aver fatto tutto?”

“Sì, tante volte”

“Allora è probabile che in quei casi tu sia stata aiutata da un karabua.”

“Ah ecco” fece Enrica, ma non sembrava molto convinta.

“E quindi decidono loro chi aiutare?” intervenni.

“Esatto.” disse Osvaldo “E se qualcuno per caso scopre la magia, come voi due adesso, non può rivelarla mai a nessuno e nemmeno fare il furbetto per cercare di ottenere aiuti non necessari, perché i karabua se ne accorgerebbero e tutto il compito svanirebbe come se non fosse mai stato fatto.”

“Quindi anche Matteo non sa nulla?” chiese Enrica, mentre Osvaldo la riportava a terra.

“Proprio così.” intervenne Matilde “Matteo adesso sta giocando a calcio con i suoi amici. Ma si è rotto la testa su quel quaderno tutta la mattina. Così abbiamo deciso di aiutarlo.”

Le sue ultime parole furono coperte da un fortissimo belato, che fece sorridere tutti coloro che si trovavano nella stanza. A quel punto Osvaldo disse:

“Venite, andiamo a fare conoscenza di Testa di legno” e aprì una porta al centro della libreria di fronte a noi.

Quest’ultima sala si sviluppava tutta in lungo, non se ne vedeva quasi la fine, ed era piuttosto spoglia, ma piena di gente.

Mischiati ai karabua c’erano molti bambini e a colpo d’occhio sembrava si stesse svolgendo una festa. Ciò che di una festa mancava erano i suoni, il denso aggrovigliarsi di urla che occupa ogni centimetro cubo di spazio di qualsiasi sala giochi del mondo.

Era come se la stanza fosse divisa in più parti insonorizzate, in modo che ognuno potesse sentire soltanto le voci e i rumori di chi si trovava nel proprio raggio d’azione. Attraversare la stanza era come spostarsi tra diverse frequenze di onde radio e l’effetto era molto spassoso.

Molti bambini erano sdraiati in terra e disegnavano su grandi fogli usando pennarelli, pastelli e matite colorate.

Una bambina suonava il pianoforte accompagnata da una karabua al violino. Qua e là si scorgevano altri musicisti, cantanti e ballerini.

Più avanti c’era un tavolo da ping-pong e un paio di calcio balilla, dove si alternavano diversi giocatori.

Alcuni bambini vestiti con mantelli, spade e corone stavano recitando, circondati da una ventina di compagni intenti a guardarli.

Lungo tutta una parete erano disposti piccoli tavolini dove a gruppetti si giocava a carte e ad altri giochi di società. Qualcuno trafficava con il microscopio, altri modellavano figure di creta, altri ancora costruivano castelli di compensato o aeroplani di plastica.

Al centro della stanza una grossa capra dall’espressione truce e con una barba lunghissima era intenta a giocare a scacchi fumando la pipa. A turno, un karabua si avvicinava paziente e muoveva un pezzo, poi andava a farsi un giro in attesa che la capra facesse la propria mossa.

“Testa di legno si ostina a voler imparare a giocare a scacchi.” disse Osvaldo “Finora ha fatto trentamila partite e le ha perse tutte, ma non vuole mollare.”

“Poverino, ma fatelo vincere!” disse Enrica

“Non servirebbe a nulla,” rispose Osvaldo “il suo scopo non è vincere, ma faticare continuamente per superare un suo limite. Se vincesse, non avrebbe più uno scopo e sarebbe molto infelice.”

“Coraggio,” disse infine Osvaldo “adesso tocca a voi: buon divertimento.”

“Da dove possiamo cominciare?”

“Da dove volete, l’importante è iniziare da qualche parte, vedrete che poi troverete la vostra strada.”

Ci gettammo nella mischia e dopo molto tempo vedemmo arrivare Gioacchino e Matilde e poi Alberico, che portava in braccio Palla di cotone.

Ci avvicinammo per salutarli ed Enrica volle dare una carezza a quel gatto sonnacchioso.

“Attenta!” gridai.

Palla di cotone si era alzato di scatto emettendo un verso raccapricciante e mi stava saltando addosso con la bocca spalancata, un’enorme voragine nera dalla quale emergevano una lingua schifosamente lunga e due denti affilati come pugnali.

Urlai ancora, con il cuore in gola, fradicio di sudore e di paura, mentre tutto il mio corpo si muoveva affannosamente senza che riuscissi a controllarmi. Poi di colpo mi svegliai.

“Alberto, Alberto, calmati.” disse una voce “Oh ecco si è svegliato, sia ringraziato il cielo!”

“Alby come stai?” e la testolina riccia di mia sorella mi piombò sul petto.

Ero in un letto con attorno Enrica, Lea, Gustavo e le tre gemelline e mi misero ancora un cuscino sotto la testa, mi toccarono la fronte, mi fecero mille carezze, mi abbracciarono e alla fine mi spiegarono perché mi trovavo lì.

“E’ successo quando il carro di quel signore ci ha superati.” disse Enrica “Ad un certo punto un pezzo di una macchina che usano per voltare il fieno ti è caduto addosso e tu sei svenuto.”

“Il signor Pietro, quello che pedala sempre su quel vecchio motorino” disse Lea “non si dava pace, poverino. Era bianco come uno straccio, pensava di averti ammazzato. Per fortuna avevo qui il Gustavo, che è venuto a prenderti. Abbiamo chiamato l’ambulanza e sono venuti subito.”

“Sì è poi tu continuavi a dire che bua, che bua, come un bambino piccolo” rise Enrica.

“Davvero, dopo lo spavento è stato da ridere “proseguì Lea “perché dopo che ti hanno rianimato, hanno capito che non avevi niente, mi sa che quel pezzo di ferro non ti aveva neanche colpito, ma tu eri un po’ strano sai, dicevi cose senza senso, e allora ti hanno portato qui in ospedale per accertamenti. Ad un certo punto è passato un dottore paffutello e tu gli hai abbracciato la pancia e continuavi a chiamarlo Gerolamo, o forse era Gioacchino, ecco sì: Gioacchino. Gli toccavi la pancia e lo chiamavi Gioacchino.”

“Beh è passata anche questa, campione!” disse Gustavo “Adesso stanno arrivando papà e mamma e potranno vedere che ti sei ripreso”.



Da allora ho rivisto spesso il signor Pietro pedalare sul suo vecchio motorino, ogni volta trainando un carro stracolmo di legna, di sacchi pieni di foglie, di rottami e tanti altri misteriosi carichi.

L’ultima volta è stata proprio la settimana scorsa, quando ci sono stati tutti quei giorni di pioggia che ci hanno fatto capire che per quest’anno possiamo definitivamente salutare l’estate.

Ero in macchina con mamma e papà. Enrica, che era seduta dietro con me, si accorse del signor Pietro che avanzava sotto il diluvio, inconfondibile con le sue spalle curve, il carretto e il motorino.

“Guarda c’è il signor Pietro!” esclamò.

“Quel vecchio! E’ una vera forza della natura” commentò papà.

La mamma aggiunse: “Sembra venuto da un altro pianeta.”

Io non dissi nulla, ma mi appoggiai al finestrino per guardare meglio.

Anche lui allungò il collo, e si sporse in avanti inclinando la testa, come per accertarsi che fossi proprio io. Poi mi fece l’occhiolino. O forse era solo una goccia d’acqua che gli aveva colpito un occhio.

Muovendomi, avevo fatto cadere qualcosa. Mi chinai a vedere: era una vecchia moneta raffigurante un leone da una parte e un sole dall’altro lato.

Alitai sul vetro e con il dito tracciai alcune lettere, che insieme componevano questa curiosa parola: karabua, che per un po’ vidi chiaramente davanti a me, prima che svanisse tra la pioggia, come partita per un mondo lontano.

Aprile 2011



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