I libri mentono tutti, non è lì che si trova la realtà, non è lì la vita: questo fa dire Marguerite Yourcenar al suo Adriano. In effetti, con tutto ciò che le cronache del mondo reale ci stanno propinando in questi giorni, si ha la sensazione che occuparsi di libri sia un po' come ballare sul Titanic che affonda.
Oppure possiamo considerarlo l'ultimo rifugio, l'ultimo appiglio a cui aggrapparsi per non affogare in un mare di mediocrità...
«L’arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla». Italo Calvino, “Il cavaliere inesistente”
lunedì 30 settembre 2013
Adriano, i libri e il Titanic
sabato 28 settembre 2013
domenica 6 ottobre torna la Remigina
Podistica Ardens Sedriano: 28ma Remigina - domenica 6 ottobre 2013: Vi aspettiamo domenica 6 ottobre 2013 dalle ore 8:00 in oratorio maschile - Piazza Mercato - Sedriano Partenza libera ore 8:30-9:00 Percor...
Libri
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano
“Mi troverei molto male in un mondo senza libri, ma non è lì che si trova la realtà, dato che non vi è per intero”
venerdì 27 settembre 2013
Giovanni Boldini
Mi piacciono i quadri di Giovanni Boldini e questo (La pianista? La signora in rosso? L'ho trovato con entrambe le denominazioni) è il mio preferito.
Il Decameron in cento tweet
Letto sul Sole 24 Ore di domenica 22 settembre che la
Società Dante Alighieri, per celebrare il settecentesimo “compleanno” di
Giovanni Boccaccio, ha lanciato in rete l’iniziativa di riassumere le cento
novelle del Decameron in altrettanti “cinguettii” da 140 caratteri.
L’idea di riassumere in 140 caratteri un’opera letteraria
non è nuova.
Ci sono i precedenti di Einaudi nel 2011, del Corriere della
sera nel 2006, e di molti altri.
In così poco spazio, è naturale che molti dei
micro-riassunti siano animati da spirito goliardico, dunque cosa c’è di meglio
delle novelle del Boccaccio per riproporre il gioco? Fin dai tempi della scuola, il
Decameron ha ispirato recite, parodie,
imitazioni, caricature.
In più, come giustamente sottolinea Lorenzo Tomasin sul Sole 24 Ore, lo stesso Boccaccio già sintetizzò
le sue novelle nella breve rubrica che precede ognuna di esse. E qualcuna di queste
introduzioni rientra perfettamente nei limiti dei 140 caratteri. Ad esempio: “Abraam
giudeo, da Giannotto di Civignì stimolato, va in corte di Roma; e veduta la
malvagità de’ cherici, torna a Parigi e fassi cristiano” (138 caratteri).
Oppure: “Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione, onestamente
rimproverando al suo abate quella medesima colpa, si libera dalla pena” (142
caratteri, solo 2 di troppo)
Prendiamola anche come un’occasione
per rileggere il Decameron. Qualche mese fa, ho voluto tornare alla seconda novella della sesta giornata,
quella di Cisti fornaio e dei due bicchieri “che parevan d’ariento, sì eran chiari”: mi serviva per un racconto che
stavo scrivendo.
Ora, non so se mi cimenterò nel gioco dei 140 caratteri, ma
molto probabilmente rileggerò qualche
altra novella. Trovo che rileggere Boccaccio, tra un Baricco e l’altro, non
possa che fare bene :-)
P.S. Giovanni Boccaccio riassunse così la novella di Cisti fornaio:
“Cisti fornaio, con una sola parola fa ravvedere messer Geri Spina d’una sua
trascurata domanda” : 94 caratteri!
domenica 22 settembre 2013
Se (lettera di Kipling al figlio)
If you can keep your head when all about
you
Are losing theirs and blaming it on you; If you can trust yourself when all men doubt you, But make allowance for their doubting too: If you can wait and not be tired by waiting, Or being lied about, don't deal in lies, Or being hated, don't give way to hating, And yet don't look too good, nor talk too wise; If you can dream—and not make dreams your master; If you can think—and not make thoughts your aim, If you can meet with Triumph and Disaster And treat those two impostors just the same: If you can bear to hear the truth you've spoken Twisted by knaves to make a trap for fools, Or watch the things you gave your life to, broken, And stoop and build 'em up with worn-out tools; If you can make one heap of all your winnings And risk it on one turn of pitch-and-toss, And lose, and start again at your beginnings And never breathe a word about your loss: If you can force your heart and nerve and sinew To serve your turn long after they are gone, And so hold on when there is nothing in you Except the Will which says to them: "Hold on!" If you can talk with crowds and keep your virtue, Or walk with Kings—nor lose the common touch, If neither foes nor loving friends can hurt you, If all men count with you, but none too much: If you can fill the unforgiving minute With sixty seconds' worth of distance run, Yours is the Earth and everything that's in it, And—which is more—you'll be a Man, my son! |
Se saprai mantenere
la testa quando tutti intorno a te la perdono, e te ne fanno colpa.
Se saprai avere fiducia in te stesso quando tutti ne dubitano, tenendo pero' considerazione anche del loro dubbio. Se saprai aspettare senza stancarti di aspettare, O essendo calunniato, non rispondere con calunnia, O essendo odiato, non dare spazio all'odio, Senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo saggio; Se saprai sognare, senza fare del sogno il tuo padrone; Se saprai pensare, senza fare del pensiero il tuo scopo, Se saprai confrontarti con Trionfo e Rovina E trattare allo stesso modo questi due impostori. Se riuscirai a sopportare di sentire le verità che hai detto Distorte dai furfanti per abbindolare gli sciocchi, O a guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte, E piegarti a ricostruirle con i tuoi logori arnesi. Se saprai fare un solo mucchio di tutte le tue fortune E rischiarlo in un unico lancio a testa e croce, E perdere, e ricominciare di nuovo dal principio senza mai far parola della tua perdita. Se saprai serrare il tuo cuore, tendini e nervi nel servire il tuo scopo quando sono da tempo sfiniti, E a tenere duro quando in te non c'è più nulla Se non la Volontà che dice loro: "Tenete duro!" Se saprai parlare alle folle senza perdere la tua virtu', O passeggiare con i Re, rimanendo te stesso, Se né i nemici né gli amici piu' cari potranno ferirti, Se per te ogni persona contera', ma nessuno troppo. Se saprai riempire ogni inesorabile minuto Dando valore ad ognuno dei sessanta secondi, Tua sara' la Terra e tutto ciò che è in essa, E — quel che più conta — sarai un Uomo, figlio mio! |
sabato 21 settembre 2013
Viaggiare - Montaigne
"A chi mi domanda ragione dei miei viaggi, solitamente rispondo che so bene quel che fuggo, ma non quel che cerco".
Michel Eyquem de Montaigne
Caspar David Friedrich, Il viandante davanti al mare di nebbia, 1818- Olio su tela, 95x75cm
Da www.millequadri.it:
"Il viandante sul mare di nebbia è una delle opere più conosciute del pittore tedesco Caspar Friedrich e uno dei simboli dell’intera pittura romantica.
L’opera raffigura un uomo di spalle in piedi su una roccia vestito di scuro e con i capelli scompigliati dal vento. Oltre il precipizio altre rocce affiorano da un mare di nebbia che avvolge la distesa che si estende al cospetto del viandante. Una composizione semplice, nello schema del personaggio di spalle replicata dal pittore anche in altre opere, ma che risulta fortemente evocativa e invita forse all’identificazione.
Il quadro è stato diversamente interpretato: l’uomo sopra la roccia sta a significare una posizione dominante sulla natura o piuttosto è la vastità del paesaggio che lo rende piccolo e vulnerabile?
Il viandante porta nel suo nome l’idea del percorso, di una ricerca senza fine che si perde nei misteri della vita. E la natura nelle sue espressioni più potenti, ora un massiccio di montagna, ora il vasto mare, ora una inestricabile foresta, rappresenta la poetica del sublime, un’idea del bello che si intuisce e si accende come moto dell’anima al cospetto della sua magnificenza e imponenza"
Viaggiare - Sant'Agostino
"E gli uomini vanno a mirare le altezze dei monti e i grossi flutti del mare e le larghe correnti dei fiumi e la distesa dell'oceano e i giri delle stelle; e abbandonano se stessi".
Sant'Agostino - Confessioni
giovedì 19 settembre 2013
In viaggio con Zafon
Ci
sono romanzi che devono il loro fascino anche all'atmosfera di una
città. O romanzi che contribuiscono a creare quel tipo di atmosfera. E
anche romanzi che sono indissolubilmente legati proprio a quella
particolare città, le pagine ne sono impregnate e dopo averli letti ti
sembra quasi di esserci stato.
Uno di questi è sicuramente "L'ombra del vento" di Carlos Ruiz Zafòn.
L'anno scorso sono stato per la prima volta a Barcellona e avevo letto questo libro non molto tempo prima. Mi sono divertito a portarlo in viaggio e a riconoscere tutti i luoghi raccontati dallo scrittore.
Chi l'ha letto, sa bene che questo romanzo è un continuo e avvincente girovagare dei protagonisti attraverso gli stretti vicoli del Barrio Gotico, il Raval, le Ramblas e l'AvenidaTibidabo, dove si trovava villa Aldaya.
Devo dire che nella maggior parte dei casi i posti che ho rintracciato erano esattamente come me li immaginavo, o come sapientamente ce li ha fatti intravedere Zafòn. L'elenco sarebbe molto lungo, ma voglio citare aleno calle Santa Ana (dove il romanzo colloca la libreria di Daniel Sempere), poi Els Quatre Gats, famoso locale frequentato da Picasso, Salvador Dalì e Federico Garcia Lorca, dove si sono conosciuti i genitori di Danile (ci vanno anche Fermin e Bernarda al loro primo appuntamento), ovviamente il castello di Montjuic, sede di nefandezze purtroppo storicamente avvenute, il monumento a Cristoforo Colombo, ai piedi del quale avviene il primo incontro con Julian Carax. Poi Calle Petritxol, storica strada delle granjas, dove Daniel e Clara concludono la loro passeggiata proprio in una di queste "latterie".
C'è Plaça de San Felip Neri, piccolina e silenziosa, precisa a come la descrive Zafòn e anche difficile da trovare, non ci passa quasi nessuno nonostante sia proprio lì, in mezzo alle strade più affollate di turisti, un vero mistero: non a caso ci abitava Nuria Monfort.
E il Cimitero dei Libri Dimenticati? Ma è in calle de l'Arc del Teatre, ci si arriva dalla Rambla de Santa Monica, la parte più squallida delle Ramblas.
In Plaça Real c'è la casa di Barcelò. In Plaça Monumental Fermin spende il suo primo stipendio per portare Daniel e il papà a mangiare lo stufato di coda di toro.
In calle de Joaquin Costa c'è la pensione di Fermin.
In calle Montcada, dietro Santa Maria del Mar, Zafòn colloca l'ospizio dove era ricoverata Jacinta (c'è anche il museo Picasso). Via Layetana, infine, evoca la presenza sinistra di Javier Fumero, visto che lì si trovava i commissariato di polizia.
Bè, ci sarebbe molto altro, ma adesso divertivi un po' voi e... buon viaggio!
Uno di questi è sicuramente "L'ombra del vento" di Carlos Ruiz Zafòn.
L'anno scorso sono stato per la prima volta a Barcellona e avevo letto questo libro non molto tempo prima. Mi sono divertito a portarlo in viaggio e a riconoscere tutti i luoghi raccontati dallo scrittore.
Chi l'ha letto, sa bene che questo romanzo è un continuo e avvincente girovagare dei protagonisti attraverso gli stretti vicoli del Barrio Gotico, il Raval, le Ramblas e l'AvenidaTibidabo, dove si trovava villa Aldaya.
Devo dire che nella maggior parte dei casi i posti che ho rintracciato erano esattamente come me li immaginavo, o come sapientamente ce li ha fatti intravedere Zafòn. L'elenco sarebbe molto lungo, ma voglio citare aleno calle Santa Ana (dove il romanzo colloca la libreria di Daniel Sempere), poi Els Quatre Gats, famoso locale frequentato da Picasso, Salvador Dalì e Federico Garcia Lorca, dove si sono conosciuti i genitori di Danile (ci vanno anche Fermin e Bernarda al loro primo appuntamento), ovviamente il castello di Montjuic, sede di nefandezze purtroppo storicamente avvenute, il monumento a Cristoforo Colombo, ai piedi del quale avviene il primo incontro con Julian Carax. Poi Calle Petritxol, storica strada delle granjas, dove Daniel e Clara concludono la loro passeggiata proprio in una di queste "latterie".
C'è Plaça de San Felip Neri, piccolina e silenziosa, precisa a come la descrive Zafòn e anche difficile da trovare, non ci passa quasi nessuno nonostante sia proprio lì, in mezzo alle strade più affollate di turisti, un vero mistero: non a caso ci abitava Nuria Monfort.
E il Cimitero dei Libri Dimenticati? Ma è in calle de l'Arc del Teatre, ci si arriva dalla Rambla de Santa Monica, la parte più squallida delle Ramblas.
In Plaça Real c'è la casa di Barcelò. In Plaça Monumental Fermin spende il suo primo stipendio per portare Daniel e il papà a mangiare lo stufato di coda di toro.
In calle de Joaquin Costa c'è la pensione di Fermin.
In calle Montcada, dietro Santa Maria del Mar, Zafòn colloca l'ospizio dove era ricoverata Jacinta (c'è anche il museo Picasso). Via Layetana, infine, evoca la presenza sinistra di Javier Fumero, visto che lì si trovava i commissariato di polizia.
Bè, ci sarebbe molto altro, ma adesso divertivi un po' voi e... buon viaggio!
La bastarda di Istanbul
Ho letto questo libro nell'ultimo weekend, incuriosito sia dal giudizio lusinghiero riportato in copertina (il premio Nobel Orhan Pamuk sostiene che l'autrice del romanzo, Elif Shafak, sia la "migliore scrittrice turca dell'ultimo decennio) sia dal tema affrontato: la questione armena, il genocidio compiuto all'inizio del secolo scorso nell'impero ottomano, che la Turchia continua a negare, tanto che anche Elif Shafak subì un processo per offesa all'identità del Paese per essersene occupata, ottenendo comunque l'assoluzione.
Considerando i giudizi lusinghieri e i numerosi premi e riconoscimenti ottenuti dalla scrittrice, sono rimasto molto deluso dalla lettura del libro.
La storia si apre con una ragazza diciannovenne, Zeliha, che in minigonna, tacchi a spillo e camicetta attillata "per sottolineare il seno abbondante", incurante del temporale estivo attraversa Istanbul per andare ad abortire. Non senza aver fatto prima una sosta al Gran Bazar, dove acquista un servizio da tè. E senza ovviamente risparmiarsi occhiate libidinose da parte dei suoi concittadini allupati e un tentativo di abbordaggio in stile "B movie" da parte di un tassista tratteggiato alla grossa attenendosi senza alcuna fantasia allo stereotipo del molestatore tanto volgare quanto innocuo.
L'aborto non avviene grazie anche a una provvidenziale preghiera del muezzin che irrompe da una moschea vicina. La ragazza rientra a casa e, dopo essersi saziata con vari e abbondanti intingoli, decide di gettare la sassata contro nonna, mamma e tre sorelle, rivelando tutto insieme: verginità perduta, gravidanza in corso e progettato aborto, presentandosi subito come la componente ribelle e disinibita del gineceo in cui vive.
A questo punto la scena si sposta in un supermercato americano, dove una giovane donna lotta contro il suo istinto a compensare le delusioni del matrimonio fallito, dell'abbandono dell'università e di una vita da precaria con tentazioni gastronomiche di vario tipo. Si imbatte nel fratello di Zeliha e, saputo che è di Istanbul, cerca "disperatamente di ricordarsi dove diavolo fosse Istanbul. Era la capitale dell'Egitto, o forse stava da qualche parte in India...Aggrottò la fronte perplessa".
Per 250 pagine il romanzo procede con un'irritante sfilza di banalità e luoghi comuni.
Poi si incontrano venti pagine molto intense nelle quali si entra nel vivo della questione armena.
A partire da questo punto il romanzo ha una svolta e trova un suo perchè. Alcuni personaggi acquistano drammaticità e ci sono delle sorprese, anche se ottenute a buon mercato, utilizzando tinte forti. E c'è anche uno stucchevole compiacimento nel voler chiudere i cerchi a tutti i costi, cercando coincidenze ad effetto.
Insomma, non darei un giudizio negativo se non fosse per il grande scarto tra le aspettative iniziali e le impressioni ricavate dalla lettura.
A molti però è piaciuto.
Elif Shafak, La bastarda di Istanbul, Rizzoli 2007, 387 pagg.
Considerando i giudizi lusinghieri e i numerosi premi e riconoscimenti ottenuti dalla scrittrice, sono rimasto molto deluso dalla lettura del libro.
La storia si apre con una ragazza diciannovenne, Zeliha, che in minigonna, tacchi a spillo e camicetta attillata "per sottolineare il seno abbondante", incurante del temporale estivo attraversa Istanbul per andare ad abortire. Non senza aver fatto prima una sosta al Gran Bazar, dove acquista un servizio da tè. E senza ovviamente risparmiarsi occhiate libidinose da parte dei suoi concittadini allupati e un tentativo di abbordaggio in stile "B movie" da parte di un tassista tratteggiato alla grossa attenendosi senza alcuna fantasia allo stereotipo del molestatore tanto volgare quanto innocuo.
L'aborto non avviene grazie anche a una provvidenziale preghiera del muezzin che irrompe da una moschea vicina. La ragazza rientra a casa e, dopo essersi saziata con vari e abbondanti intingoli, decide di gettare la sassata contro nonna, mamma e tre sorelle, rivelando tutto insieme: verginità perduta, gravidanza in corso e progettato aborto, presentandosi subito come la componente ribelle e disinibita del gineceo in cui vive.
A questo punto la scena si sposta in un supermercato americano, dove una giovane donna lotta contro il suo istinto a compensare le delusioni del matrimonio fallito, dell'abbandono dell'università e di una vita da precaria con tentazioni gastronomiche di vario tipo. Si imbatte nel fratello di Zeliha e, saputo che è di Istanbul, cerca "disperatamente di ricordarsi dove diavolo fosse Istanbul. Era la capitale dell'Egitto, o forse stava da qualche parte in India...Aggrottò la fronte perplessa".
Per 250 pagine il romanzo procede con un'irritante sfilza di banalità e luoghi comuni.
Poi si incontrano venti pagine molto intense nelle quali si entra nel vivo della questione armena.
A partire da questo punto il romanzo ha una svolta e trova un suo perchè. Alcuni personaggi acquistano drammaticità e ci sono delle sorprese, anche se ottenute a buon mercato, utilizzando tinte forti. E c'è anche uno stucchevole compiacimento nel voler chiudere i cerchi a tutti i costi, cercando coincidenze ad effetto.
Insomma, non darei un giudizio negativo se non fosse per il grande scarto tra le aspettative iniziali e le impressioni ricavate dalla lettura.
A molti però è piaciuto.
Elif Shafak, La bastarda di Istanbul, Rizzoli 2007, 387 pagg.
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