Sono tornato alle pagine del Gattopardo dopo tanti anni, trovando la conferma, una volta di più, di quanto sia bello e necessario continuare a leggere e rileggere i classici.
Questa volta ho scelto la
versione in audiolibro, splendidamente interpretata da Toni Servillo. Una
versione che esalta la parabola esistenziale del Principe di Salina, quel suo rimirar le
stelle a fronte della pochezza delle vicende umane. L’arcinota denuncia del
cinismo e dell’opportunismo che caratterizzano ogni epoca di veloce
trasformazione (quel “se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto
cambi” ormai diventato proverbiale, tanto che ha finito per rinchiudere le
bellissime pagine di questo romanzo in un recinto troppo angusto) si trasforma,
in questa mia nuova “lettura”, nel disincanto di chi capisce tutti i limiti del
vecchio come del nuovo ordine e li osserva con malinconico distacco.
Memorabili i dialoghi nei quali vediamo
all'opera il Gattopardo nei suoi rapporti con i Borboni (l’udienza con re
Ferdinando) , con i piemontesi (la
visita del prefetto Chevalley, in cui rifiuta il seggio senatoriale), e con i suoi
dipendenti (“questi liberalucoli di campagna”) tanto indolenti quanto calcolatori, avidi e rapaci, che rappresentano
il ceto emergente, lesto a cogliere l’occasione per saltare sul carro del
vincitore (“le rondini avrebbero preso il volo più presto”), miseri
“sciacalletti e iene”, destinati a rimpiazzare i gattopardi e a costituire la
futura classe dirigente soprattutto in forza dei loro limiti e della loro
inconsapevolezza.
Don Fabrizio si trova più a
proprio agio con uomini schietti e sinceri, “snob” ante litteram, come
l’organista don Ciccio Tumeo, che sdegnati dal conformismo truffaldino dei
tempi nuovi preferiscono aderire tardivamente alla fazione sconfitta (“ero un
fedele suddito, sono diventato un borbonico schifoso”) e trova
intellettualmente e spiritualmente più stimolante il rapporto con esponenti di un potere eterno e carico di storia come il
gesuita padre Pirrone. Solo per dovere sociale subisce la frequentazione, in
tempi diversi, tanto della decrepita aristocrazia in disarmo, quanto dei rozzi
e incolti uomini nuovi, come quel don Pietro Sedara che con rassegnato senso di
ineluttabilità accoglie persino nella propria famiglia.
A plasmare il romanzo, più che i
fatti e gli avvenimenti, sono soprattutto i pensieri del Principe, l’indulgenza
verso la debolezza umana (“non era lecito odiare altro che l’eternità”), il
continuo richiamo della sensualità (“pecco per non peccare più”) e le numerose
riflessioni sulla Sicilia (“questo è il paese degli accomodamenti”), sulla sua
storia (“sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di
magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e
perfezionate”) e sui siciliani (“in
Sicilia non importa far male o far bene, il peccato che noi siciliani non
perdoniamo mai è semplicemente quello di fare”).
All’ombra del Principe, a
movimentare, contestualizzare ed intervallare il flusso principale della
narrazione, si consumano anche vicende minori, come lo struggimento dickinsoniano
della figlia Concetta, infelicemente
innamorata del cugino Tancredi, o come il dramma privato di padre Pirrone, chiamato a risolvere nel più
tradizionale dei modi una vicenda d’onore che coinvolge la sua famiglia.
In conclusione, un romanzo che
pare un monumento alla caducità umana, che si apre nel mese di maggio 1860 tra
gli eccessi di un giardino dagli odori fin troppo prepotenti e nauseabondi e si
chiude esattamente cinquant'anni dopo nello stesso mese, tra ossa, carcasse
imbalsamate e polvere da gettare nell'immondizia.
Non stupisce che alla sua uscita,
negli anni ’50 della ricostruzione post bellica, non abbia incontrato lo
spirito del tempo, né che molti addetti ai lavori abbiano criticato l’argomento
passatista, l’orientamento antistorico, lo stile decadente e poco innovativo. A
noi che leggiamo per puro diletto, Tomasi
di Lampedusa regala invece una prorompente sensazione di bellezza e
immortalità, tuttora in grado di affascinarci, anche per via del continuo filo
di ironia, che non viene mai meno.
“Ho settantatré anni, all'ingrosso ne avrò
vissuto, veramente vissuto un totale di due, tre al massimo. E i dolori, la
noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare, tutto il resto:
settant'anni”.
Un libro letto secoli fa, un bel suggerimento per riprenderlo in mano, grazie. Buona serata.
RispondiEliminasinforosa
ciao Sinforoso, è la terza volta che lo leggo (o meglio, questa volta l'ho ascoltato) e ho trovato cose nuove, che non avevo notato. E' questa l'occasione in cui l'ho apprezzato di più.
EliminaUn saluto