domenica 5 aprile 2020

La peste

Non è necessario essere santi, né eroi, ma non per questo ci si deve rassegnare al Male. Occorre invece combatterlo, curarlo, limitarne i danni, consapevoli che una vittoria definitiva non la potremo mai ottenere. Il medico non può impedire la morte, può semmai ritardarla, curare la malattia, conscio che si tratta sempre di successi provvisori.
Questo mi pare, in estrema sintesi, il messaggio di questo romanzo, che ho voluto leggere per la prima volta nel tempo dell’attuale pandemia.
Orano, un’anonima cittadina sulla costa algerina viene sconvolta negli anni Quaranta del secolo scorso da un’epidemia di peste. Stupore, incredulità, preoccupazione, panico, rassegnazione si susseguono velocemente tra i cittadini indifesi e le autorità impreparate a gestire la situazione. “Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista”.
L’amorfa collettività di Orano, senza caratteristiche particolari che la possano distinguere dall’Umanità tutta che vuole rappresentare, è il primo fondamentale personaggio del romanzo. Con i suoi bollettini sanitari, le ordinanze prefettizie, le inquietudini, le leggerezze, lo stato di perenne incertezza sulla durata dell’epidemia e dei provvedimenti, lo sfinimento dei medici e delle squadre volontarie di soccorso, i funerali negati, l’impaurita disciplina e l’altalenante emotività, è proprio questa la voce che noi lettori dei giorni del Coronavirus andiamo a cercare, raccogliendo analogie e discordanze.
Da questa moltitudine si distingue una manciata di personaggi che sostengono la trama e ne arricchiscono il significato allegorico.
Bernard Rieux è un giovane medico che con umanità, competenza, concretezza e testardaggine si batte senza sosta per salvare il salvabile. “L’essenziale era fare bene il proprio lavoro”. “Non possiamo contemporaneamente curare gli uomini e sapere. Quindi occupiamoci di curare gli uomini il più in fretta possibile. E’ questa la cosa più urgente.”
Raymond Rambert è un energico e ambizioso giornalista, che si trova a Orano per lavoro allo scoppio dell’epidemia e, impossibilitato a ricongiungersi con i suoi affetti, è l’emblema degli esuli, delle persone e delle famiglie improvvisamente separate dal dilagare del male. “In realtà soffrivamo due volte – della nostra sofferenza e poi di quella che immaginavamo negli assenti, figli, moglie o amante”. Le numerose, appassionate pagine che Camus scrive su questa umanità divisa da una barriera ostile e impenetrabile (nel ricordo tragico dei campi di concentramento) ci fanno rabbrividire al ricordo di tutti i Muri, da Berlino in poi, che sarebbero stati costruiti, progettati o semplicemente vagheggiati nei decenni successivi.
L’onesto impiegato comunale Joseph Grand è un ometto triste, insospettabilmente romantico, alla perenne ricerca delle parole giuste, una persona rispettabile come ce ne saranno sempre, di quelle che il male non riesce proprio ad eliminare.
Il suo vicino di casa Cottard, al contrario, vive di espedienti, nel torbido prospera e lucra, teme il ritorno alla normalità, che lo rende scontroso e guardingo. Il disordine, invece, gli dona lucentezza e affabilità.
Il giudice Othon, algidamente disumano nella fanatica comprensione del suo ruolo, nella disgrazia più prevedibilmente trova un’occasione di redenzione.
Infine c’è il misterioso Jean Tarrou, il cui confronto con Rieux nel finale del romanzo ci fornisce la chiave per la sua interpretazione.
Intellettuale ed idealista ormai disilluso, Tarrou si trova in un vicolo cieco: la peste ce la portiamo dentro, è praticamente impossibile evitare di contagiare qualcuno (“allora ho capito che, almeno io, anche nei lunghi anni in cui pure credevo con tutta l’anima di lottare conto la peste, non avevo mai smesso di essere un appestato”), nel combattere il male si rischia di generare altro male (“ho scoperto che avevo acconsentito indirettamente alla morte di migliaia di uomini, che avevo addirittura provocato quella morte trovando buone le ragioni e i principi da cui fatalmente era conseguita”) e si può solo scegliere tra essere flagello o essere vittima. La terza categoria, quella dei veri medici, è la più rara, ed è la strada più difficile.
Un po’ più semplice, paradossalmente, è ambire alla santità, magari una santità senza Dio, fatta di pura compassione, ossia un immolarsi dalla parte delle vittime per giungere infine alla pace.
Il dottor Rieux, obietta: “Non provo granché interesse, credo, per l’eroismo e la santità. Quel che mi interessa è essere un uomo”.
Scrivendo nel 1947, sulle macerie provocate dal Male assoluto, in un periodo di grande tensione ideale e di scontro ideologico, Camus vuole ammonirci contro la tentazione di costruire la società perfetta, quella in cui il male sia definitivamente estirpato: è una speranza vana, fonte di ulteriori sofferenze e distruzioni, come la Storia ha ampiamente dimostrato. Tra l’intransigente purezza della santità e tutti i limiti di un’umanità imperfetta, meglio la seconda.
“Ascoltando infatti le grida di esultanza che si levavano dalla città, Rieux si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice”.

Letto nella traduzione di Yasmina Melaouah, per Bompiani, 2017 - disponibile anche in Ebook
Molto bella la lettura di Remo Girone, ascoltabile su Rai Play Radio, che segue la precedente traduzione di Beniamino Dal Fabbro. Link: La peste di Albert Camus letto da Remo Girone (Rai Play - Ad Alta Voce) 

4 commenti:

  1. Decisamente attualissimo. Buona continuazione di giornata e grazie per la condivisione.
    sinforosa

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    1. ciao Sinforosa, sono rientrato oggi in questo blog dopo tanto tempo (oltre due anni). Tra l'altro, mi sono accorto solo ora della tua bellissima pagina e l'ho aggiunta nel mio blogroll. Con colpevole ritardo ti faccio i miei complimenti, hai creato uno spazio interessante, vivo, gestito con un garbo, una chiarezza e un'intelligenza che non si trovano molto spesso.
      Da oggi sarò un tuo lettore fisso. Incostante e disordinato per indole e necessità.
      Un caro saluto
      Pierpaolo

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  2. Quante analogie col mondo di oggi!!!
    Basta soltanto cambiare la parola peste con coronavirus e il gioco è fatto.
    Anche n oi viviamo di paure e incertezze. Anche noi ci siamo trovati impreparati a reagire alla nostra "peste", incapaci di lottare. Poco per volta abbiamo imparato ma quante vite è costato!
    Ciao e ben tornato!
    Patri

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    1. Ciao Patricia, ben ritrovata anche a te!
      Ci voleva una pandemia per farmi riprendere a scrivere...
      Dei due romanzi che molti hanno letto in queste settimane, alla ricerca di analogie letterarie, Cecità è quello decisamente più cupo pessimista, mentre La peste è tutto sommato quello che ci consegna un cauto e guardingo ottimismo. Ben diverso dai tanti slogan tipo "Andrà tutto bene", si intende, perché a molti già non è andata per niente bene.
      Un caro saluto

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