Non è facile commentare un saggio
scritto da un autore che si stima, per il quale si nutre rispetto e
ammirazione, ma del cui contenuto non si condivide quasi nulla.
L’educazione (im)possibile di
Vittorino Andreoli è un libro che mi ha messo molto a disagio, che ho letto con
grande curiosità, sperando pagina dopo pagina di trovare la svolta che
attendevo, e faticando sempre di più ad arrivare alla fine nonostante la
qualità delle riflessioni dell’autore e il grande interesse dei temi trattati.
Perché ho fatto così fatica?
Perché ho provato disagio?
Per due terzi il libro è un lungo
elenco di riflessioni amare, di critiche al passato e al presente, strali
acuminati che non lasciano speranze, come quei pensieri che tutti, genitori e
non, a partire da una certa età lasciamo che ci attraversino la mente e il cuore
(forse rappresentano la coperta di Linus di ex ragazzi che hanno ormai
trascorso troppi anni nella fortezza Bastiani, mentre il mondo nel frattempo è
andato avanti). L’ultima parte invece ripone le speranze di successo di ogni
serio tentativo di educazione in un’utopica società nuova, nella quale possa
fiorire un nuovo umanesimo, non più ciecamente fiducioso nelle qualità
dell’uomo, ma vaccinato dalla crisi del Novecento e reso forte dalla consapevolezza
dell’umanità fragilità.
Per chi è padre, o madre, è un
discorso sconfortante. A costo di banalizzarlo (ma dobbiamo banalizzare un po’ le
cose per riportarle sulla terra) significa questo: cari genitori, voi siete
stati educati in un modo tremendo, con un sistema di regole buono soprattutto
per generare una moltitudine di tranquilli e
innocui cittadini sottomessi al potere. Oggi state assistendo impotenti
allo sgretolarsi delle istituzioni (a cominciare dalla famiglia e dalla scuola)
che vi davano un’illusoria sensazione di sicurezza. Soprattutto, le (giuste) critiche
all’autoritarismo del passato hanno provocato una vittima certa: il padre, che
non ha più un suo ruolo in famiglia ed è diventato inutile, tanto da poter
definire la nostra società come una società senza padri. Ma poiché ogni vuoto è
destinato ad essere riempito, sempre più forte sta emergendo il nuovo
indiscusso capofamiglia, ovvero il dio denaro che è impiegato prevalentemente in
spese inutili, caratterizzando la nostra società (oltre che per l’assenza del
padre) anche come società dell’inutile.
Abbiamo qualche speranza? No,
così come stanno le cose non ce l’abbiamo: manca nei giovani (e non solo)
qualsiasi percezione del futuro, senza la quale non ha senso parlare di
educazione. In qualsiasi ambito (famiglia, scuola, relazioni, sesso, consumi,
politica) si vive per soddisfare i bisogni primari del momento, senza fare progetti,
senza capacità di attesa, senza fantasia, senza sogni.
E dunque? Dunque non resta che
sperare in un altro mondo, magari in un’altra vita…
Scherzi a parte, il problema è
proprio qui: Andreoli vede nella crisi attuale un’occasione di rifondazione
della società che permetta di uscire dalle logiche economiciste che oggi
imperversano per riscoprire gli autentici valori dell’ascolto, del silenzio,
dell’esperienza, del tempo delle relazioni, dell’affettività.
Non approfondisco ognuno dei
punti per non dilungarmi troppo, ma ognuno di essi è trattato con un tale
impeto visionario e utopico da gettarmi nello sconforto ancora più
dell’impietosa analisi effettuata su presente e passato. Perché se l’analisi
del presente è corretta, non si capisce su quali presupposti possano trovarsi
le energie necessarie per questa nuova società.
Soprattutto avverto un profondo e
istintivo rifiuto verso un’idea che percorre tutto il saggio, qualche volta in
modo esplicito, altre volte semplicemente rimanendo nell’aria come nota
dominante. E’ l’idea che in fondo tutto si determini nel collettivo, nel
plurale e non nel privato. Perché il problema è quello: in attesa di questa
rigenerata società del futuro (che di per sé, anche se tratteggiata da una
persona mite e pacifica come Andreoli, evoca qualche inquietante fantasma del
passato) che facciamo? Cosa ci raccontiamo? Come viviamo la realtà di tutti i
giorni?
Nessun padre o madre di famiglia
affiderebbe mai nemmeno l’infima parte del destino, della felicità o della
salute dei propri figli alla speranza di un’incerta e poco probabile catarsi
collettiva.
Un conto è la giusta critica
all’Io straripante che produce invidia, bramosia, conflitto, frustrazione. Ma
ben diverso è lasciar intendere che, senza una società nuova, ogni personale
tentativo di trovare un proprio soddisfacente equilibrio rischia di rivelarsi
vano.
Il capitolo che mi è piaciuto di
più di tutto il libro è quello intitolato “Relazione e educazione”. E’ quello
dove Andreoli, attingendo anche alla sua esperienza di psichiatra e terapeuta,
parla della paura. Tutta la storia dell’uomo, le sue relazioni, i suoi stati
d’animo, i suoi desideri, le sue passioni più profonde ruotano attorno al tema
della paura. Anche il male e la violenza affondano le loro radici nella paura.
Dice Andreoli: “Non ho alcun
dubbio che la relazione sia un meccanismo inventato per allontanare la paura.
La relazione è il punto di partenza per stabilire un legame, e il legame può
raggiungere la qualità del sentimento, che ha la capacità di far avvertire la
presenza dell’altro anche quando si è soli”.
Ecco, proprio basandomi su queste
belle parole, che condivido, mi permetto di criticare le conclusioni a cui
Andreoli arriva. Perché non c’è genitore al mondo (anche se non colto e
intelligente come chi scrive libri e studia gli uomini e la società) che non
voglia almeno provare a stabilire con i propri figli quel legame.
Il bisogno di vincere la nostra
paura, e di dare ai nostri figli un appiglio contro la paura, non ci farà mai
riporre tutte le nostre speranze in un ipotetico processo di rinnovamento della
società.
Qualcosa faremo sempre, magari
sbagliando tutto, seguendo l’istinto e l’ispirazione del momento.
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