domenica 29 giugno 2014

La donna giusta



Quattro monologhi, ambientati a Budapest, Roma e New York, secondo un itinerario simile a quello dello stesso autore.

Quattrocentotrenta pagine, non tutte indispensabili, tre diverse stesure tra il 1941 e il 1980, un torrente impetuoso di parole, una cascata di osservazioni suggestive e di frasi da ricordare. A proposito di cosa?

Ecco, questo è il punto. Ho l’impressione che il buon Marai abbia gradualmente cambiato discorso,  e che ci sia stata una svolta piuttosto netta tra i primi due monologhi (quelli dell’edizione 1941) e i successivi due.

Nel primo monologo, in un’elegante pasticceria di Budapest una signora della buona borghesia ungherese racconta ad un’amica la storia del fallimento del suo matrimonio. Si parte proprio così, tipo “posta del cuore”, tra una soffiatina di naso, un po’ di cipria, una tazzina di tè  e un gelato, “sai cara” e “prego cara”.

Scorrono le pagine e ci si addentra nei meandri dell’amore,dei dubbi, delle illusioni, della lotta e della sconfitta, con considerazioni non banali sull’animo umano. Tutto interessante, ma si capisce che non si può andare avanti quattrocento pagine in questo modo.

E infatti, a pagina 61  irrompe il nastro viola, che ci introduce un personaggio che difficilmente dimenticheremo: Judit.  Con lei entrano con scena altri temi cari a Marai: l’attesa, la feroce determinazione, disciplina, rinuncia, dissimulazione e autocontrollo che richiede ogni paziente, tenace e lunga attesa, e poi la forza che c’è nel sangue e nei muscoli, nella fibra di chi “vuole tutto” e che riempie di tragica grandezza ogni gesto, ogni parola, ogni attimo della sua vita.

 Assistiamo ad una lotta, ma fino a qui sembra che il terreno di scontro sia soltanto sentimentale.  “Da qualche parte vive sempre la donna giusta ”dice l’anziana suocera che ha imparato a muoversi e a vedere nel buio del silenzio e della rassegnazione. Ma il primo monologo si chiude con una riflessione diversa: la persona giusta non esiste, in qualche modo amiamo sempre la persona sbagliata, eppure non possiamo smettere di amare.

Cambio di scena, passano gli anni e Peter, l ’uomo conteso da due donne, racconta la sua versione dei fatti ad un amico in un bar di Budapest:  un monologo lungo parecchie bottiglie di vino. Il panorama si allarga, l’atrofia sentimentale si accompagna alla solitudine, al malessere esistenziale e alla decadenza di quella buona borghesia che, fiaccata dal benessere e dalla propria stessa cultura, sarà travolta e fagocitata dalle forze nuove del ventesimo secolo. Se il sottotitolo del primo monologo potrebbe essere: “la verità, vi prego sull’amore”, in questa seconda parte potremmo fare il pieno di citazioni intelligenti e vissute sull’essere umano e sul suo destino terreno. E Judit Aldozo in questo quadro dove i deboli soccombono e i forti si prendono tutto, la bambina cresciuta in una buca sotterranea infestata dai topi, la tigre che si muove flessuosa e sorniona nella “giungla piena di impetuose cascate quale è la parte più vera della vita” assume i connotati di una invincibile dea della catastrofe.

Nel 1941 la guerra arriva anche in Ungheria e proprio in quell’anno “Az igazi” (quello giusto, senza distinzione tra genere femminile o maschile) viene dato alle stampe, composto soltanto dai primi due monologhi. La prima versione del romanzo ci consegna una Judit smarrita da quanto possano essere vuote, amare e inappaganti le vittorie a lungo cercate, ostinatamente perseguite. Alla fine esce di scena con “lo stesso sguardo silenzioso, interrogativo e distaccato di quando l’avevo vista la prima volta, nell’ingresso”.

Il terzo monologo è quello scritto nel 1949, dopo la guerra, le distruzioni, i saccheggi, le vendette,  l’ordine nuovo, che in Ungheria significò la “democrazia del popolo”, le purghe, le cospirazioni, i tradimenti, le fughe, gli espatri, tutti contro tutti e si salvi chi può.

Questa volta tocca a Judit parlare. E non racconta soltanto di una vittoria vana, di un sacrificio inutile. E’  una Judit invecchiata, sconfitta, che ha perso tutto e che in un alberghetto di Roma, tra le braccia di uomo più giovane, sfoglia malinconicamente le pagine della propria vita. L’orizzonte si allarga ancora. La prospettiva diventa meno intima, più collettiva. Poveri contro ricchi, borghesi contro proletari. L’odio sociale, il desiderio di rivalsa, la fame, la cattiveria, l’assenza di pietà come armi per la sopravvivenza in un mondo allo sbando dove contano soltanto la forza e l’astuzia, essere sani e vigorosi, non intossicati dalla cultura e rammolliti dagli agi e dalle buone maniere. Insomma Judith Aldozo non aggiunge solo una terza versione dei fatti: è soprattutto la prima a parlare a guerra finita, in un mondo nuovo.

Questo spostamento di attenzione dall’intimo al sociale è testimoniato anche dalla parabola compiuta dallo scrittore Lazar, l’intellettuale, l’amico di Peter. Personaggio inquietante ed enigmatico, con sensibilità e intelligenza fuori dal comune, nei primi due monologhi Lazar è colui che ha lo sguardo capace di penetrare nel cuore di Peter, di Judit, di tutti, e capisce prima degli altri. Sebbene qualche volta si abbia il dubbio che parli sul serio, per la sua stravaganza e la tendenza a prendersi gioco degli altri,  è un uomo che ancora crede nella propria missione, quella di custode del vecchio ordine, contro le pulsioni autodistruttive della stessa borghesia.

Nel racconto di Judit,conosciamo invece un Lazar molto diverso, più scoperto, senza maschera,  un uomo che vuole “prendere le distanze dal mondo … da tutto ciò che conta per il genere umano”, che considera la parola come veleno e che legge soltanto vocabolari, perché è ormai convinto che la cultura, come le olive farcite al pomodoro, è destinata a scomparire. “E’ possibile che anche in futuro da qualche parte si venderanno olive ripiene al pomodoro. Ma sarà ormai estinto quel genere di persone che avevano coscienza di una cultura. La gente avrà soltanto delle conoscenze, e non è la stessa cosa. La cultura è esperienza, mia cara signora, un’esperienza continua, costante, come la luce del sole. La conoscenza è solo un accessorio. Ecco perché sono lieto che almeno lei abbia fatto in tempo ad assaggiare le olive.” E ancora: “Nel mondo prossimo venturo chi è bello sarà guardato con sospetto. Come pure chi ha talento. E carattere. Non lo capisce? La bellezza sarà considerata un affronto. Il talento una forma di provocazione. E il carattere un attentato!”

E infine, il quarto monologo, pubblicato soltanto nel 1980. Nel bar di New York dove ha trovato lavoro, l’amante di Judit racconta ad un connazionale i tempi duri dell’Ungheria dei gruppi di produzione, dei ministri che studiavano a Mosca, della polizia politica, dei tribunali speciali.

Il nuovo mondo si è ormai affermato e “lo sporco proletario” può permettersi il lusso di accompagnare a casa “il signor dottore” con la sua bella macchina nuova. E bearsi anche della casa, della tivvù e persino della cesoia elettrica per tagliare l’erba, che non si usa, perché non c’è il giardino, ma si tiene nella veranda, per lo status.

Judit invece aveva capito e imparato bene la lezione: “ho la brutta sensazione che non sarà come dicono … Alla fine, a quegli altri rimarrà sempre qualcosa che non vogliono mollare. E che non gli si può levare con la violenza … Non lo si ottiene nemmeno dopo anni e anni passati a scaldare il banco all’università … Proprio non capisco. Ma ho il sospetto che ci sia ancora qualcosa che i signori non ci vogliono dare …”

Sarà forse quella capacità di sorridere, qualunque cosa accada. Quel sorriso, che i ricchi probabilmente imparano “in una specie di università segreta” probabilmente può spiegare perché le vittorie di  chi è cresciuto in una buca in mezzo ai topi sono sempre effimere,  mentre chi porta la camicia da tre generazioni riesce sempre, inspiegabilmente, a conservare “aplomb” e distacco (e odore di fieno!) anche percorrendo un ponte tra gli sfollati o scomparendo a New York oltre la Centesima strada, “là dove comincia la terra dei mori…” Rispetto alla pasticceria di Budapest in cui il romanzo si apre, tanta strada.

La scelta di sviluppare la storia attraverso quattro monologhi indubbiamente l’arricchisce di significati, di sfumature, di dettagli diversi, che per essere colti pienamente richiedono almeno una seconda lettura. 

L’osservazione da quattro punti di vista diversi è molto interessante, ma in questo modo si tende frequentemente a descrivere e spiegare ciò che con altra tecnica narrativa si sarebbe mostrato direttamente. Insomma non è romanzo particolarmente adatto a chi ama i libri cosiddetti “scorrevoli”: la struttura dei monologhi, la lunghezza, la ripetitività, il continuo gioco di specchi, lo caratterizzano invece come romanzo piuttosto barocco e tortuoso.

E davvero ci sono preziosismi che si scoprono solamente con un’ottima memoria oppure con una seconda lettura. Ad esempio all’inizio del monologo di Peter e alla fine di quello di Judit (a duecentosessanta pagine di distanza) si trova la medesima osservazione sulla cultura, che al tempo degli antichi greci coinvolgeva gioiosamente tutto il popolo, persino i vasai, espressa con parole soltanto leggermente diverse. L’apparentemente forte Judit non sa che in fondo è stata plasmata un po’ anche dall’apparentemente debole Peter.

“Le Braci” mi aveva stregato immediatamente per la tensione narrativa, per la capacità di incatenare il lettore e costringerlo a stare chinato in avanti, col fiato sospeso e l’orecchio teso, attento a non farsi sfuggire una sillaba di quello splendido soliloquio notturno.

“La donna giusta” ti scava invece lentamente, goccia a goccia, in modo ammaliante e a tratti soporifero. Però probabilmente, anche se è ancora presto per dirlo, è destinato a rimanere più in profondità.

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