Quattro monologhi, ambientati a
Budapest, Roma e New York, secondo un itinerario simile a quello dello stesso autore.
Quattrocentotrenta pagine, non
tutte indispensabili, tre diverse stesure tra il 1941 e il 1980, un torrente
impetuoso di parole, una cascata di osservazioni suggestive e di frasi da
ricordare. A proposito di cosa?
Ecco, questo è il punto. Ho
l’impressione che il buon Marai abbia gradualmente cambiato discorso, e che ci sia stata una svolta piuttosto netta
tra i primi due monologhi (quelli dell’edizione 1941) e i successivi due.
Nel primo monologo, in
un’elegante pasticceria di Budapest una signora della buona borghesia ungherese
racconta ad un’amica la storia del fallimento del suo matrimonio. Si parte
proprio così, tipo “posta del cuore”, tra una soffiatina di naso, un po’ di
cipria, una tazzina di tè e un gelato,
“sai cara” e “prego cara”.
Scorrono le pagine e ci si
addentra nei meandri dell’amore,dei dubbi, delle illusioni, della lotta e della
sconfitta, con considerazioni non banali sull’animo umano. Tutto interessante,
ma si capisce che non si può andare avanti quattrocento pagine in questo modo.
E infatti, a pagina 61 irrompe il nastro viola, che ci introduce un
personaggio che difficilmente dimenticheremo: Judit. Con lei entrano con scena altri temi cari a
Marai: l’attesa, la feroce determinazione, disciplina, rinuncia, dissimulazione
e autocontrollo che richiede ogni paziente, tenace e lunga attesa, e poi la
forza che c’è nel sangue e nei muscoli, nella fibra di chi “vuole tutto” e che riempie
di tragica grandezza ogni gesto, ogni parola, ogni attimo della sua vita.
Assistiamo ad una lotta, ma fino a qui sembra
che il terreno di scontro sia soltanto sentimentale. “Da qualche parte vive sempre la donna giusta
”dice l’anziana suocera che ha imparato a muoversi e a vedere nel buio del
silenzio e della rassegnazione. Ma il primo monologo si chiude con una
riflessione diversa: la persona giusta non esiste, in qualche modo amiamo
sempre la persona sbagliata, eppure non possiamo smettere di amare.
Cambio di scena, passano gli anni
e Peter, l ’uomo conteso da due donne, racconta la sua versione dei fatti ad un
amico in un bar di Budapest: un monologo
lungo parecchie bottiglie di vino. Il panorama si allarga, l’atrofia
sentimentale si accompagna alla solitudine, al malessere esistenziale e alla
decadenza di quella buona borghesia che, fiaccata dal benessere e dalla propria
stessa cultura, sarà travolta e fagocitata dalle forze nuove del ventesimo
secolo. Se il sottotitolo del primo monologo potrebbe essere: “la verità, vi
prego sull’amore”, in questa seconda parte potremmo fare il pieno di citazioni intelligenti
e vissute sull’essere umano e sul suo destino terreno. E Judit Aldozo in questo
quadro dove i deboli soccombono e i forti si prendono tutto, la bambina cresciuta
in una buca sotterranea infestata dai topi, la tigre che si muove flessuosa e
sorniona nella “giungla piena di impetuose cascate quale è la parte più vera
della vita” assume i connotati di una invincibile dea della catastrofe.
Nel 1941 la guerra arriva anche
in Ungheria e proprio in quell’anno “Az igazi” (quello giusto, senza distinzione
tra genere femminile o maschile) viene dato alle stampe, composto soltanto dai
primi due monologhi. La prima versione del romanzo ci consegna una Judit
smarrita da quanto possano essere vuote, amare e inappaganti le vittorie a
lungo cercate, ostinatamente perseguite. Alla fine esce di scena con “lo stesso
sguardo silenzioso, interrogativo e distaccato di quando l’avevo vista la prima
volta, nell’ingresso”.
Il terzo monologo è quello scritto
nel 1949, dopo la guerra, le distruzioni, i saccheggi, le vendette, l’ordine nuovo, che in Ungheria significò la
“democrazia del popolo”, le purghe, le cospirazioni, i tradimenti, le fughe,
gli espatri, tutti contro tutti e si salvi chi può.
Questa volta tocca a Judit
parlare. E non racconta soltanto di una vittoria vana, di un sacrificio
inutile. E’ una Judit invecchiata,
sconfitta, che ha perso tutto e che in un alberghetto di Roma, tra le braccia
di uomo più giovane, sfoglia malinconicamente le pagine della propria vita. L’orizzonte
si allarga ancora. La prospettiva diventa meno intima, più collettiva. Poveri
contro ricchi, borghesi contro proletari. L’odio sociale, il desiderio di
rivalsa, la fame, la cattiveria, l’assenza di pietà come armi per la
sopravvivenza in un mondo allo sbando dove contano soltanto la forza e
l’astuzia, essere sani e vigorosi, non intossicati dalla cultura e rammolliti
dagli agi e dalle buone maniere. Insomma Judith Aldozo non aggiunge solo una
terza versione dei fatti: è soprattutto la prima a parlare a guerra finita, in
un mondo nuovo.
Questo spostamento di attenzione
dall’intimo al sociale è testimoniato anche dalla parabola compiuta dallo scrittore
Lazar, l’intellettuale, l’amico di Peter. Personaggio inquietante ed
enigmatico, con sensibilità e intelligenza fuori dal comune, nei primi due
monologhi Lazar è colui che ha lo sguardo capace di penetrare nel cuore di
Peter, di Judit, di tutti, e capisce prima degli altri. Sebbene qualche volta
si abbia il dubbio che parli sul serio, per la sua stravaganza e la tendenza a
prendersi gioco degli altri, è un uomo
che ancora crede nella propria missione, quella di custode del vecchio ordine,
contro le pulsioni autodistruttive della stessa borghesia.
Nel racconto di Judit,conosciamo invece
un Lazar molto diverso, più scoperto, senza maschera, un uomo che vuole “prendere le distanze dal
mondo … da tutto ciò che conta per il genere umano”, che considera la parola
come veleno e che legge soltanto vocabolari, perché è ormai convinto che la
cultura, come le olive farcite al pomodoro, è destinata a scomparire. “E’
possibile che anche in futuro da qualche parte si venderanno olive ripiene al
pomodoro. Ma sarà ormai estinto quel genere di persone che avevano coscienza di
una cultura. La gente avrà soltanto delle conoscenze, e non è la stessa cosa.
La cultura è esperienza, mia cara signora, un’esperienza continua, costante,
come la luce del sole. La conoscenza è solo un accessorio. Ecco perché sono
lieto che almeno lei abbia fatto in tempo ad assaggiare le olive.” E ancora:
“Nel mondo prossimo venturo chi è bello sarà guardato con sospetto. Come pure
chi ha talento. E carattere. Non lo capisce? La bellezza sarà considerata un
affronto. Il talento una forma di provocazione. E il carattere un attentato!”
E infine, il quarto monologo,
pubblicato soltanto nel 1980. Nel bar di New York dove ha trovato lavoro, l’amante
di Judit racconta ad un connazionale i tempi duri dell’Ungheria dei gruppi di
produzione, dei ministri che studiavano a Mosca, della polizia politica, dei
tribunali speciali.
Il nuovo mondo si è ormai
affermato e “lo sporco proletario” può permettersi il lusso di accompagnare a
casa “il signor dottore” con la sua bella macchina nuova. E bearsi anche della
casa, della tivvù e persino della cesoia elettrica per tagliare l’erba, che non
si usa, perché non c’è il giardino, ma si tiene nella veranda, per lo status.
Judit invece aveva capito e
imparato bene la lezione: “ho la brutta sensazione che non sarà come dicono …
Alla fine, a quegli altri rimarrà sempre qualcosa che non vogliono mollare. E
che non gli si può levare con la violenza … Non lo si ottiene nemmeno dopo anni
e anni passati a scaldare il banco all’università … Proprio non capisco. Ma ho
il sospetto che ci sia ancora qualcosa che i signori non ci vogliono dare …”
Sarà forse quella capacità di
sorridere, qualunque cosa accada. Quel sorriso, che i ricchi probabilmente
imparano “in una specie di università segreta” probabilmente può spiegare perché
le vittorie di chi è cresciuto in una
buca in mezzo ai topi sono sempre effimere, mentre chi porta la camicia da tre generazioni
riesce sempre, inspiegabilmente, a conservare “aplomb” e distacco (e odore di
fieno!) anche percorrendo un ponte tra gli sfollati o scomparendo a New York
oltre la Centesima strada, “là dove comincia la terra dei mori…” Rispetto alla
pasticceria di Budapest in cui il romanzo si apre, tanta strada.
La scelta di sviluppare la storia
attraverso quattro monologhi indubbiamente l’arricchisce di significati, di
sfumature, di dettagli diversi, che per essere colti pienamente richiedono
almeno una seconda lettura.
L’osservazione da quattro punti
di vista diversi è molto interessante, ma in questo modo si tende
frequentemente a descrivere e spiegare ciò che con altra tecnica narrativa si
sarebbe mostrato direttamente. Insomma non è romanzo
particolarmente adatto a chi ama i libri cosiddetti “scorrevoli”: la struttura
dei monologhi, la lunghezza, la ripetitività, il continuo gioco di specchi, lo
caratterizzano invece come romanzo piuttosto barocco e tortuoso.
E davvero ci sono preziosismi che
si scoprono solamente con un’ottima memoria oppure con una seconda lettura. Ad
esempio all’inizio del monologo di Peter e alla fine di quello di Judit (a
duecentosessanta pagine di distanza) si trova la medesima osservazione sulla
cultura, che al tempo degli antichi greci coinvolgeva gioiosamente tutto il
popolo, persino i vasai, espressa con parole soltanto leggermente diverse. L’apparentemente
forte Judit non sa che in fondo è stata plasmata un po’ anche dall’apparentemente
debole Peter.
“Le Braci” mi aveva stregato immediatamente
per la tensione narrativa, per la capacità di incatenare il lettore e
costringerlo a stare chinato in avanti, col fiato sospeso e l’orecchio teso,
attento a non farsi sfuggire una sillaba di quello splendido soliloquio
notturno.
“La donna giusta” ti scava invece
lentamente, goccia a goccia, in modo ammaliante e a tratti soporifero. Però
probabilmente, anche se è ancora presto per dirlo, è destinato a rimanere più
in profondità.