Silenzio a Milano, raccolta di
articoli e racconti scritti alla fine degli anni ’50 conferma pienamente quella
definizione. Che si parli della Stazione Centrale, vista come porta di
comunicazione con le moderne divinità della produttività e della laboriosità
alienante, tempio in cui si celebrano rinnovati sacrifici umani in omaggio al
Vuoto, al Brutto e all’Inutile, o dei ragazzi disadattati di Arese, malinconici
prigionieri dell’attesa di un focolare domestico che da tempo li ha esclusi, la
sostanza non cambia.
Documentandomi un po’
sull’autrice, anche sulle opere che non conosco, ho appreso che il silenzio
riveste una particolare importanza per la sua poetica, a cominciare dalla poesia
d’esordio “Manuele” scritta per il fratello marinaio, morto al largo della
Martinica.
In Silenzio a Milano ci sono
sette articoli e racconti e almeno altrettanti tipi di silenzio. In “Una notte alla stazione” c’è il silenzio
che scende sui luoghi della produttività meneghina e come la nebbia li avvolge,
dopo che la città ha consumato il suo quotidiano pasto di vite umane. “I
ragazzi di Arese” ci parla del silenzio di chi non ha voce per farsi sentire, o
di chi può solo urlare il proprio dolore dietro una spessa barriera di vetro.
“Locali notturni” evoca il silenzio che ci sorprende a festa finita, quando gli
orchestrali se ne vanno, la malinconia di tutti i giorni resta e misuriamo
quanto effimero sia ogni tentativo di evasione. “Le piramidi di Milano”
rivelano il silenzio di morte che abita lo spazio riservato a conservare
l’ordine e il rispetto della Legge. Con “La città è venduta” partecipiamo al
silenzio di chi non sa rispondere a domande che sarebbe meglio evitare,
fuggire, dimenticare. Con “Il disoccupato” scopriamo il silenzio cupo e
ostinato dell’efficienza che respinge coloro che non si adeguano e non si
adattano ad essere trasformati in “cose”, senza occhi per guardare e cuore per
vivere (eppure il milanese Berto, così innocentemente fiero delle vendite di
elettrodomestici e il calabrese Antonio, inebetito dalla sua incapacità di
integrarsi, rappresentano due modi diversi di essere disgraziati, uniti già dal
loro primo incontro in sanatorio). E infine “Lo sgombero” ci mostra il silenzio
di chi scopre con sgomento che il mondo non sa cosa farsene dei valori e delle
qualità umane, anzi, sono proprio i sani principi e i buoni valori che rendono
inadeguati e inadatti a vivere.
La Ortese ha un radar speciale
per cogliere frammenti di varia umanità nascosti in un gesto, uno sguardo, una
pausa, un’increspatura della voce o nelle rughe che attraversano un volto. Poi
ricompone tutti i frammenti per ottenere storie vive, reali o di fantasia, ma
sempre autentiche.
Quando scrive come giornalista,
illuminante a questo riguardo il pezzo sulla Stazione Centrale, “porta del
lavoro, ponte delle necessità, estuario del sangue semplice”, la Ortese ci
offre uno spicchio di realtà parziale e personalissimo, su cui si può anche
dissentire nel merito, senza che questo impedisca di rimanere incantati
dall’efficacia e dalla bellezza della sua rappresentazione.
In un primo tempo si può dubitare
che sacrifichi la verità in omaggio alla bellezza, ma poi ci si convince che ciò
che scrive è autentico (che è già una buona approssimazione al vero) in quanto
intrinsecamente bello.
Le ideologie, gli stereotipi, i
freddi numeri che possono essere usati per dire tutto e il contrario di tutto,
si sbriciolano davanti alla stupefacente capacità della Ortese di cogliere
l’essenziale che, se non proprio invisibile agli occhi come sosteneva Antoine Saint
Exupery, certamente non si lascia facilmente catturare da microfoni, telecamere
e registratori.
E siamo al “reportage di anime”,
espressione utilizzata per descrivere i suoi articoli scritti nel 1954 per
l’Europeo come inviata in Russia. Questi articoli, ripubblicati cinquant’anni
dopo, sono stati il primo contatto che ho avuto con questa scrittrice e mi
hanno immediatamente impressionato per la loro bellezza, per il modo così inconsueto,
così vero, così intimo di affrontare una pagina giornalistica.
Ho scoperto recentemente che
proprio questi articoli, per i quali la Ortese fu accusata di essere da una
parte troppo severa e dall’altra troppo benevola nei confronti della Russia di
Stalin, scatenarono polemiche e furono l’inizio del progressivo distacco
dell’Ortese dal Partito Comunista Italiano. Sancirono anche un’altra rottura:
quella tra la scrittrice e le donne. La Ortese fece infatti il viaggio in
compagnia di una delegazione dell’Unione Donne Italiane, che non mancò di farle
sentire tutta la propria ostilità per aver scritto “Il mare non bagna Napoli” ,
una raccolta di racconti impietosi su questa città. “Tornai dalla Russia con
dei dubbi sulla natura femminile, da allora le donne mi sono piaciute di meno”
concluse la Ortese.
L’espressione “reportage di
anime” mi sembra molto calzante anche per Silenzio a Milano perché rende un l’idea di ciò che distingue questi scritti da
un’atmosfera che altrimenti sembrerebbe di stampo “neorealista”. La Ortese va invece molto oltre la rappresentazione
di un contesto sociale e dei tipi umani che lo caratterizzano.
L’impressione è che la sua
forza stia soprattutto nella curiosità e
nell’empatia con l’essere umano e nella sincerità dello sguardo con cui cerca
di comprenderlo, indipendentemente dalla posizione sociale, dal ruolo
professionale, dalla lingua, dalla latitudine, dalla cultura.
“Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di Sole:
ed è subito sera”
Per raccontare i tanti modi di
vivere quella solitudine e quella brevità, la Ortese usa sia la cronaca
giornalistica, (nella quale a ben vedere non ci parla veramente di Napoli o di
Milano, della Russia o dell’Italia, ma sempre e soltanto di quella solitudine e
di quella brevità) sia il racconto.
Anni dopo introdurrà anche
l’elemento fantastico, tanto da far parlare qualche critico di “realismo
magico”, ma questo è un nuovo capitolo che anch’io devo ancora iniziare. Magari proprio quest'anno, visto che il prossimo 13 giugno sarà il centenario della nascita di questa grande scrittrice.
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