Ho provato qualche volta a lasciare i sicuri lidi della grande
editoria, degli scrittori affermati, dei classici, per
avventurarmi nel mare aperto dell’editoria minore e provare a leggere
qualche opera di scrittore
esordiente, magari autopubblicata.
Non lo faccio spesso (ho troppe cose “sicure”, o presunte tali, ancora
da leggere) ma quando l’ho fatto mi è
andata abbastanza bene: non so se per una questione di fortuna o di
fiuto.
A questa categoria di letture appartiene La voliera dei pappagalli, di
Anna Maria Balzano.
Ho conosciuto Anna Maria in un sito (Qlibri) nel quale si possono
scrivere e leggere recensioni e mi hanno
subito colpito i suoi interventi molto appropriati. Quando ho scoperto
che è lei stessa scrittrice, ho provato
la naturale curiosità di leggerla.
Questo è in realtà il suo secondo romanzo (il primo, che finora non ho
letto, è il Viaggio di Emilia, nel quale
Anna Maria racconta la storia della sua famiglia).
Comincio col dire che La voliera dei pappagalli mi è piaciuto molto,
alla fine ti lascia uno stato d’animo
positivo e racconta con grande delicatezza fatti e vicende che invece
si collocano tra il drammatico e il
tragico (la storia si apre con la scoperta di un cadavere che
galleggia nel Tevere).
Con pochi tratti veloci Anna Maria riesce a rievocare alcuni efficaci
archetipi che tutti possiamo
diversamente riconoscere nel nostro vissuto quotidiano o in
letteratura. Ad esempio le pagine sul carcere,
molto belle ed efficaci, richiamano interi mondi letterari e
cinematografici, a cominciare dal film di Nanni
Loy, “Detenuto in attesa di giudizio”. Invece le vicende dolorose di
alcuni personaggi femminili mi hanno
riportato alla memoria le sofferenze raccontate da Simone De Beauvoir
in “Una donna spezzata”.
Soprattutto, questo romanzo riesce a non farci mai perdere l’interesse
per le sue pagine, perché parla in
fondo di personaggi “normali” le cui tracce e somiglianze non sono
difficili da trovare tra le nostre
esperienze personali e conoscenze, e comunque ne sono piene le
cronache.
Semmai colpisce la sobrietà con cui ognuno vive la propria personale
vicenda, o forse si tratta di sobrietà
del raccontare. Ma è proprio questo il nocciolo della questione e qui
sta anche, credo, il significato del bel
titolo che è stato scelto per il romanzo.
La bella sensazione che rimane in noi, voltata l’ultima pagina, è
dovuta anche al fatto di vedere che le
persone più fragili o le persone che finalmente hanno modo di scoprire
la propria vulnerabilità si ritrovano
fortificati dalle proprie cadute.
Scopriamo anche che si può decidere di non uscire dalla “gabbia” in
cui ci si trova a vivere, soprattutto
quando si è finalmente capito quali erano le vere sbarre che ci
tenevano prigionieri. E questo ci piace e ci
rassicura, senza bisogno di credere nelle fiabe, perché la vita è
bella così, senza troppo zucchero e con
qualche
boccone amaro ogni tanto.
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