Sono molti i libri, i romanzi che
propongono al lettore saghe e storie di famiglia.
Nonne che raccontano, nipoti che
ricordano, soffitte piene di tesori, cassetti dai quali emergono lettere e
diari in grado di far fantasticare sulle vicende più o meno avventurose di
antenati dimenticati o sconosciuti.
“Lessico famigliare” di Natalia
Ginzburg, un classico della letteratura italiana, è qualcosa di diverso. Si viene
subito conquistati dalla leggerezza del racconto, contrapposta alla
drammaticità della Storia che fa da
sfondo (il fascismo, le leggi razziali, la guerra, i primi anni del
dopoguerra). L’autrice non abbandona mai
la sua vena ironica, sia che si tratti di regalarci deliziosi quadretti
di vita domestica, sia che osservi con la stessa familiarità e disinvoltura i
numerosi personaggi celebri che accompagnano per lunghi tratti le vicende del
racconto.
Ultima dei cinque figli di
Giuseppe Levi, scienziato e professore universitario triestino, l’ambiente di Natalia Ginzburg è quello della borghesia
colta e antifascista della Torino tra gli anni Trenta e Cinquanta.
Filippo Turati, Anna Kuliscioff,
Giancarlo Pajetta, Leone Ginzburg, Camillo e Adriano Olivetti, Cesare Pavese,
Vittorio Foa si mescolano alle vicende di casa Levi, anzi ne fanno parte e
vengono descritti attraverso gli occhi
di chi, per età e carattere, si tiene ai margini, osserva e annota. E così,
fuori dall’ufficialità dei libri di storia e delle cronache politiche, ma anche
con grande garbo e discrezione, ci vengono offerti tratti umani e aneddoti
difficilmente dimenticabili.
Solo le vicende della scrittirce, che
sposò Leone Ginzburg e fu una “colonna” della casa editrice Einaudi fin quasi dalla sua fondazione, sono sfumate e ridotte all’indispensabile. L’io
narrante non è quasi mai protagonista della storia raccontata, che è
soprattutto storia di coloro che popolarono gli anni decisivi della sua
esistenza.
Più che la storia, importano i bozzetti;
interessa il carattere dei personaggi più ancora delle loro vicende. Frammenti
di vita familiare. E su tutti svetta la figura paterna, personaggio che detta i
tempi della narrazione ed è sempre al centro dei passaggi più divertenti.
Il “lessico” è il filo
conduttore. Fin dalla prima pagina, fin dall’incipit:
"Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se
io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo
cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: - Non fate malagrazie!"
E subito dopo ci si imbatte negli
sbrodeghezzi, nei potacci, nelle negrigure, e via discorrendo.
Erano queste alcune delle parole
che rendevano così caratteristico il modo di esprimersi del padre di Natalia,
una sorta di burbero buono con la passione della montagna e del socialismo – "le cose che mio padre apprezzava e stimava
erano: il socialismo, l’Inghilterra, i romanzi di Zola, la fondazione
Rockfeller, la montagna e le guide della Val d’Aosta" - rappresentato con un
misto di soggezione e affetto dall’autrice (a distanza di tempo più affetto che soggezione). Parole, lessico che
costituirono un inconfondibile segno di riconoscimento per tutta la famiglia, insieme
agli aneddoti raccontati mille volte attorno al tavolo.
"Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse,
alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci
incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma
basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi
antiche, sentite e ripetute mille volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci
basta dire:<<Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna>> o <<De cosa spussa
l’acido solforico>>, per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la
nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle
parole."
Quel lessico, quelle frasi,
quelle storie, risuonano in casa Levi mentre ad uno ad uno i suoi figli
prendono strade diverse.
Gino, il primogenito e prediletto
dal padre perchè studioso e appassionato di montagna:
"Gino dava poco spago perché leggeva sempre; e quando gli si parlava,
rispondeva a monosillabi, senza alzar la testa dal libro. Se Alberto e Mario si
picchiavano, non si muoveva e continuava a leggere; e mia madre doveva
chiamarlo e scuoterlo, che venisse a dividerli. Leggendo, mangiava pane, adagio
adagio, una pagnotta dopo l’altra; ne mangiava più o meno un chilo, dopo il
pranzo.
…A volte, la sera mio padre portava Gino dai Lopez; sembrandogli il più
serio, il più educato, il più presentabile dei suoi figli. Ma Gino aveva il
vizio di addormentarsi dopo mangiato: e si addormentava anche là dai Lopez, in
una poltrona, con la Frances che gli parlava: i suoi occhi si facevano piccoli,
la sua testa dondolava dolcemente; e dopo un poco dormiva, con un sorriso
svanito e beato, con le mani in grembo. – Gino! Urlava mio padre,- non dormire!
Stai dormendo!
- Voialtri, diceva mio padre, non siete gente da portare nei loghi."
Gino fu il primo a sposarsi e a lasciare la casa paterna
per andare a lavorare alla Olivetti.
"Gino dunque lasciò la nostra casa, e se ne andò ad abitare
a Ivrea; e pochi mesi dopo annunciò a mio padre di aver conosciuto là una
ragazza e di essersi fidanzato. Mio padre fu colto da una collera spaventosa.
Mio padre sempre, ogni volta che uno di noi gli annunciò di essere sul punto di
sposarsi, fu colto da una spaventosa collera, chiunque fosse la persona
prescelta. Un pretesto lo trovava sempre. O diceva che la persona da noi
prescelta era di salute gracile; o diceva che non aveva soldi; o diceva che ne
aveva troppi. Ogni volta mio padre ci proibì di sposarci; senza ottenere nulla,
perché tutti ci sposammo ugualmente."
All’opposto, Mario e Paola erano i più distanti dagli
ideali del padre, in quanto “detestavano
la montagna, e amavano le stanze chiuse e tiepide, la penombra, i caffè.
Amavano i quadri di Casorati, il teatro di Pirandello, le poesie di Verlaine,
le edizioni Gallimard, Proust. Erano due mondi incomunicabili.”
Dovevano aver tratto le loro
inclinazioni dalla madre Lidia una milanese di origine triestina che
prediligeva “ il socialismo, le poesie di
Paul Verlaine, la musica e, in particolare, il Lohengrin, che usava cantare per
noi la sera dopo cena.” Anche
lei amava le comodità e non
impazziva di gioia quando c’era da andare in montagna “Vacca
d’una casa! Malignazzo di un Saint Jacques-d’Ajas!”, ma era una “persona lieta”, dotata di ironia e
quindi capace di comunicare e intendersi meglio con l’aspro mondo paterno.
Al contrario, "mostravano, la Paola e Mario, perduti nella loro malinconia, una
profonda insofferenza per il dispotismo di mio padre, e per i costumi di casa
nostra, quanto mai semplici e austeri: avevano l’aria di sentirsi, nella nostra
casa, in esilio, sognando tutta un’altra casa, e tutt’altre abitudini."
In esilio Mario ci andrà veramente: a Parigi, dove si
rifugiò in seguito ad una avventurosa fuga dopo essere stato arrestato per la
pubblicazione di opuscoli antifascisti. E a Parigi finirà per rimanere anche a
guerra finita.
Paola invece passerà attraverso
il matrimonio e il divorzio con Adriano Olivetti.
"La Paola avrebbe voluto tagliarsi i capelli, portare i
tacchi alti e non le scarpe mascoline e robuste che faceva <<il signor
Castagneri>>; andare a ballare in casa delle sue amiche, e giocare al tennis.
Nulla di questo le era consentito. Le era quasi imposto di andare, il sabato e
la domenica, in montagna con Gino e con mio padre. La Paola trovava Gino
noioso, Rasetti noioso, gli amici di Gino in generale tutti noiosissimi, e la
montagna insopportabile. Skiava tuttavia molto bene, senza stile, dicevano, ma
con grande resistenza alla fatica e con grande coraggio, e si buttava giù per
le discese con l’impeto di una leonessa. A giudicare dall’impeto e dal furore
con cui si buttava giù per le discese, io sono indotta a credere che si
divertisse a skiare, e ne traesse il più vivo piacere: ma ostentava per la
montagna un profondo disprezzo; diceva di avere in odio le scarpe chiodate, i
calzettoni di lana e le minute lentiggini che apparivano al sole sul suo
piccolo naso delicato; e per fare sparire quelle minute lentiggini, usava, dopo
ch’era stata in montagna, incipriarsi il viso d’una cipria bianca. Avrebbe
voluto avere poca salute, un aspetto fragile, e il viso d’un pallore lunare,
come hanno le donne nei quadri di Casorati; e si seccava quando le dicevano che
era <<fresca come una rosa>>. Vedendola bianca in viso, mio padre che non
sospettava che mettesse la cipria, diceva che era anemica e le faceva prendere
il ferro."
Infine Alberto, il più discolo, con un carattere solare e
gaudente:
"Mio padre era
preoccupato per l’avvenire di tutti i suoi figli maschi, e svegliandosi la
notte diceva a mia madre: - Cosa farà Gino? Cosa farà Mario? – Ma nei riguardi
di Alberto, che andava ancora al ginnasio, mio padre non era preoccupato, era
addirittura in preda al panico. – Quel mascalzone di Alberto! Quel farabutto di
Alberto! – Non diceva neppure “quell’asino di Alberto” perché Alberto era più
che un asino, le sue colpe sembravano a mio padre inaudite, mostruose. Alberto
passava le giornate o sui campi di foot-ball, da cui tornava sudicio, a volte
con le ginocchia o la testa insanguinate e bendate; o in giro con i suoi amici;
e rientrava sempre tardi a pranzo. Mio padre si sedeva a tavola, e cominciava a
sbattere il bicchiere, la forchetta, il pane; e non si sapeva se ce l’aveva con
Mussolini, o con Alberto che non era ancora rientrato.
…Alberto andava
dietro alle sartine; andava dietro, però, anche alle ragazze di buona famiglia.
Andava dietro a tutte le ragazze, gli piacevano tutte; e siccome era allegro e
gentile, corteggiava, per allegria e gentilezza, anche quelle che non gli
piacevano. Si iscrisse in medicina; e mio padre se lo trovava davanti,
nell’aula di anatomia; e non gli piaceva niente trovarselo lì. Una volta, era
buio nell’aula, e mio padre faceva delle proiezioni; e vide, nel buio, una
sigaretta accesa. – Chi fuma? – urlò. – Chi è quel figlio d’un cane che s’è
messo a fumare? – Sono io papà, rispose la nota voce leggera; e tutti risero.
Quando Alberto
doveva dare un esame, mio padre era, fin dal mattino di pessimo umore. – Mi
farà fare una brutta figura! Non ha studiato niente! – diceva a mia madre –
Aspetta Beppino!- lei rispondeva, -
aspetta! Non lo sappiamo ancora.
-Ha preso trenta, -
gli diceva mia madre. –Trenta? – lui s’infuriava. – Trenta! Gliel’hanno dato
perché è mio figlio! Se non era mio figlio lo bocciavano
E si faceva più
nero che mai.
Alberto diventò,
più tardi, un medico molto bravo. Ma mio padre non se ne convinse mai. E quando
mia madre o qualcuno di noi non stava bene, e esprimeva il desiderio di farsi
visitare da Alberto, mio padre rompeva in quelle sue tuonati risate:
-Macchè Alberto!
Cosa volete che sappia Alberto!"
Quando anche Natalia lascia definitivamente la
casa paterna e Torino, in quella casa rimangono suo padre e
sua madre, soli. Ma anche allora continuano a risuonare le antiche parole:
"Tutte domeniche, - disse mia madre,- andavo dal Barbison.
Le sorelle del Barbison le chiamavano le Beate, perché erano molto bigotte…..
Ah non cominciamo adesso col Barbison! Disse mio padre. –Quante volte
l’ho sentita contare questa storia!"