In questo suo ultimo saggio, Luca
Ricolfi compie un’analisi accurata delle difficoltà della sinistra politica in
tutto il mondo e del parallelo insorgere di movimenti “populisti” giungendo
alla conclusione che destra e sinistra sono categorie politiche che hanno perso
gran parte del loro significato e che il dibattito politico dei prossimi anni
sarà piuttosto tra “forze dell’apertura” contrapposte alle “forze della
chiusura”, senza che ciò implichi alcun giudizio morale sulle une o sulle altre.
L’analisi di Ricolfi non punta a
dimostrare il distacco tra la sinistra e la base sociale che essa tradizionalmente
rappresentava fino a circa metà degli anni 70 del novecento, ma cerca di
indagare le ragioni e i fattori che hanno determinato questo fenomeno in tutto
il mondo occidentale.
Il ragionamento si sviluppa in
tre parti e un epilogo.
La prima parte è dedicata a confutare lo schema
proposto da Norberto Bobbio, una delle figure più care nel pantheon della
sinistra italiana, nel famoso e fortunato saggio “Destra e Sinistra” del 1994. Nell’epoca in cui il distacco con i ceti
popolari era già ampiamente avvenuto, quel libricino è all’origine del
“cortocircuito logico che ha permesso alla sinistra di non comprendere quello
che nel frattempo era diventata, nonché di prolungare il proprio atteggiamento
di superiorità morale verso la destra.”
La seconda parte contiene una
sintesi della storia economica degli ultimi quarant’anni. Se il periodo tra il
’46 e il ’75 è da considerare l’età dell’oro per la sinistra del mondo
occidentale (crescita dei redditi, innalzamento dei livelli di istruzione,
incremento generalizzato dei consumi, allargamento del welfare) negli anni
successivi per via di ripetuti shock petroliferi, stagflazione e crisi fiscale
dello Stato la situazione cambia irreversibilmente. Le trasformazioni sociali
(scomparsa del tradizionale mondo popolare, raccontata ad esempio da Pasolini),
economiche (fiammata liberista degli anni 80, globalizzazione, recessione
prolungata), politiche (fine della
guerra fredda, comparsa di nuovi attori sulla scena internazionale, terrorismo
islamico, flussi migratori), e demografiche (invecchiamento Paesi
nord-occidentali, flussi migratori) modificano completamente la natura dei
partiti di sinistra, che spesso salgono al governo abbagliati e frastornati dal
successo del liberismo sfrenato dell’era Thatcher e Reagan, abbandonano gradualmente la difesa dei ceti
più deboli della società, si convertono al mercato e diventano il riferimento
dei “ceti medi riflessivi”, colti e urbanizzati
che ormai inseguono solo ideali di progresso “politicamente corretti”
come i diritti dei gay, le quote rosa, il linguaggio sessista, la fecondazione
assistita, il testamento biologico, l’alimentazione naturale, i diritti degli
animali, etc.
In Italia, ad esempio, l’origine di questa
parabola si colloca negli anni della politica del “compromesso storico”
promossa da Berlinguer (altro mito della sinistra colpito dalla critica di
Ricolfi) che ha determinato l’arrocco a difesa degli strati forti della classe
operaia garantiti da sindacati e statuto dei lavoratori, rinunciando ad
interessarsi del vasto mondo dei disoccupati, sottoccupati e irregolari, un
mondo senza protezioni su cui si fondava
la sopravvivenza dei padroncini, artigiani e commercianti che costituivano la
linfa vitale della DC.
Nella terza parte si indagano le
origini del moderno populismo, ovvero della reazione dei ceti popolari al
“tradimento” della sinistra, divenuta in gran parte “riformista” e ad un mondo
che si presenta senza alcun sogno di “sol dell’avvenire”, ma piuttosto con la
prospettiva di una lunga notte, di competizione sfrenata, assenza di crescita, insicurezza
economica, fisica, sociale. Ricolfi propone un modello matematico nel quale
tende a dimostrare che crisi economica, paura del terrorismo e interazione tra
queste due variabili siano all’origine della forte domanda di protezione che è
alla base di ogni populismo, sia che nasca con matrice di destra (più
preoccupazione verso i flussi migratori) che con matrice di sinistra
(preoccupazione verso gli interessi del grande capitale e verso le ingerenze economiche
degli organismi sovranazionali). Inoltre sostiene che la domanda di protezione
dei nuovi ceti popolari (sostanzialmente i perdenti della globalizzazione e gli
abitanti delle periferie) si basa su evidenze oggettive e misurabili, di fronte
alle quali la sinistra ha finora avuto una atteggiamento “negazionista”. La
sinistra stessa d’altro canto si è strutturalmente modificata: mentre
quarant’anni fa aveva il problema di aggregare qualche colletto bianco alle
tute blu (da qui l’espansione verso il settore pubblico, la scuola, le
università),oggi ha il problema opposto di trovare qualche operaio (o
disoccupato o precario) che si aggiunga alle proprie fila composte
prevalentemente da impiegati, insegnanti e funzionari pubblici. La stessa
attenzione che la sinistra dedica agli immigrati e alle politiche di
accoglienza, rivelerebbe il disperato bisogno che la sinistra ha di un baluardo
contro il naufragio della propria identità. Senza immigrati, la sinistra non
avrebbe più alcun segno visibile della propria vocazione ad occuparsi di chi sta
in basso nella scala sociale.
La conclusione è che la
ribellione dei ceti popolari parte da lontano (secondo alcuni studiosi la crisi
della sinistra in America inizia nel secondo dopoguerra; in Italia è negli’80
che nasce il fenomeno degli operai con tessera CGIL che votano Lega Nord) e ai
giorni nostri si è trasformata in insofferenza e aperta ostilità verso il
“politicamente corretto”, che in alcuni casi è degenerato nel “follemente
corretto”. La sinistra di governo viene perciò travolta dalla protesta contro
l’establishment e contro l’assenza di senso di realtà che caratterizza le élites
benpensanti a cui essa non solo si è totalmente assimilata, ma a cui ha fornito
un modello culturale fatto di indulgenza, perdonismo, empatia, calore umano,
sostanzialmente un’etica della generosità con cui la cultura “liberal” cerca di
mitigare le proprie spinte individualiste.
Invece nell’ampia minoranza di
persone che abita nel mondo di sotto e che si preoccupa più della sopravvivenza che
dell’autorealizzazione, si fa strada l’idea che “il fondamento di ogni identità
e di ogni diritto non è il singolo individuo, ma è la comunità cui il singolo
appartiene alla nascita… E’ alla comunità che spetta difendere e preservare i
propri costumi, la propria lingua, i propri modi di vita; è la comunità che ha
il dovere di tutelare e promuovere il benessere dei suoi membri; è la comunità
l’unica titolare del diritto di escludere o includere chi voglia entrarvi
dall’esterno”.
Il dibattito futuro dunque sarà
tra forze dell’apertura e forze della chiusura. In ognuno dei due
schieramenti ci sarà ancora, come
pallido ricordo della sinistra e destra novecentesche, una distinzione tra chi
è maggiormente propenso ad aprire ai capitali e chiudere alle persone o
viceversa, ma il dibattito prevalente sarà tra l’insieme di forze (che siano di
origine liberale o della sinistra riformista) interessate a cogliere le
opportunità derivanti da una sempre maggiore apertura e interconnessione in
tutti i campi, contrapposte alle forze (che siano eredi dei conservatori o
della sinistra antagonista) prevalentemente concentrate sui rischi e sulla
domanda di protezione che sale da chi è escluso da quelle opportunità.
Ricolfi, par di capire, propende
per una saggia terza via: tra chi vorrebbe gettare ponti e chi pensa ad
innalzare muri, sembra che apprezzi chi preferisce costruire porte. Perché le
porte si possono aprire o chiudere, a seconda del momento e delle necessità.
Riferimenti/Percorsi di lettura
Ci sono molti temi e dunque molti
libri che si possono intrecciare con questo saggio. Innanzi tutto “Destra e sinistra” di Norberto
Bobbio (utile una rilettura dopo oltre 20 anni). Poi qualche libro sul
populismo dei giorni nostri (ad esempio, “Populismo 2.O” di Marco Revelli,
sociologo che tra l’altro è ispiratore di diversi punti di “Destra e sinistra”
di Bobbio). Ricolfi si sofferma per diverse pagine anche in un confronto tra il
declino della civiltà liberale ottocentesca descritta da Ortega y Gasset (“La
ribellione delle masse”, 1929) e l’attuale periodo storico nel quale gli
esclusi dalla globalizzazione cercano di far sentire la loro voce e di
sovvertire l’ordine imposto nel “mondo di sopra”. Personalmente trovo che
alcuni spunti di riflessione interessanti su questi temi provengano anche dal
premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, che da decenni è uno dei massimi
studiosi della diseguaglianza e teorico dei benefici che le politiche
redistributive possono dare anche alla crescita economica. Comunque il saggio
di Ricolfi ha una ricchissima bibliografia e una fitta sezione note che vi
consente di collegare queste pagine ai percorsi che più preferite. C’è poi una
appendice statistica, per entrare nel merito del modello matematico proposto e
con la componente quantitativa dell’analisi. Chicca finale: un’appendice
“politicamente scorretta” sul Manifesto di Ventotene che vi farà venire voglia
di andare a leggere direttamente il celebre scritto di Spinelli, Rossi e
Colorni invece di fidarvi delle citazioni, anche di altissimo livello, che lo
riguardano.
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