Cosa sono le “emozioni
distruttive”? A cosa servono? Sono necessariamente un male? A quali conseguenze
portano? In che modo si possono superare?
Quanto dipendono da fattori ambientali e culturali? In che modo gli individui
si differenziano nel provare e riconoscere le emozioni? Ci può essere un’educazione
alla felicità?
Questi sono solo alcuni degli
interrogativi a cui ha cercato di rispondere un gruppo formato da una dozzina
di scienziati occidentali e di monaci tibetani, che si sono incontrati a Dharamsala,
dove risiede il Dalai Lama, per cinque giorni di dibattito nel marzo del 2000.
Daniel Goleman, lo psicologo americano celebre per i suoi studi sull’”Intelligenza emotiva” ha riassunto dettagliatamente questa esperienza, collegandola agli studi che la precedettero e agli sviluppi scientifici che ne seguirono, nel saggio “Emozioni distruttive, liberarsi dai tre veleni della mente, rabbia desiderio e illusione” pubblicato nel 2003.
La scoperta scientifica, che si
colloca a fine anni Novanta, che ha reso questo incontro particolarmente
proficuo e ricco di potenzialità per il futuro, è la plasticità del cervello,
la sua capacità di rinnovarsi e modificarsi per tutta la vita. Risale solo al
1998 la dimostrazione che negli esseri umani nascono nuovi neuroni per tutto il
corso dell’esistenza. Non solo: i nostri pensieri, le nostre emozioni sono in
grado di modificare il cervello e dunque possono condizionare i pensieri e le
emozioni successive. Allenarsi a pensare bene ci abitua a pensare meglio in
futuro. Non lo dicono (solo) filosofi
morali e monaci, ma (anche) medici e scienziati, e non in base a teorie o
assiomi, ma a seguito di ricerche, esami di laboratorio e sofisticati
esperimenti.
Il gruppo di lavoro di Dharamsala, marzo 2000 |
La cultura buddista, fondata sul
concetto di meditazione e di compassione, è un ambito particolarmente
fertile per studiare gli effetti che un adeguato allenamento emotivo è in grado
di produrre sulle funzioni cerebrali e in definitiva sulla nostra salute. Come
a Goleman fu profetizzato negli anni Settanta del secolo scorso, il buddismo si
è introdotto in Occidente soprattutto per mezzo della psicologia. Determinate
tecniche di meditazione ottengono un effetto sulla capacità di controllo delle
nostre emozioni distruttive pari o superiore a quello dei farmaci, evitandone
effetti collaterali, assuefazione e dipendenza.
La psicologia in Occidente nacque
come osservazione e cura di stati patologici e per decenni si è concentrata
sugli stati mentali insani, trascurando gli stati mentali che producono
felicità e benessere. La ricerca del bene, o della felicità, in Occidente è
stata lasciata ai filosofi morali e ai teologi. Solo in epoca relativamente
recente, anche grazie ad aperture e
dialoghi di questo tipo con la cultura orientale, se ne stanno occupando anche
medici e scienziati.
Sul concetto di “negatività” di
un’emozione, ad esempio, cultura occidentale e cultura buddista hanno visioni
diverse. In Occidente si parla di “emozioni distruttive” pensando alle
conseguenze pratiche e materiali che esse esercitano su chi le prova e su
coloro che le subiscono. Oppure si guarda all’appropriatezza delle emozioni: è normale provare tristezza per la morte di un
proprio caro, ma il depresso l’assume come stato d’animo permanente.
Per la cultura buddista invece la
negatività è già implicita nell’offuscamento della mente, che quando è libera
dalle emozioni è lucida e brilla come oro. Più che di emozioni, il buddismo
preferisce parlare di “afflizioni mentali” che impediscono di vedere
chiaramente le cose e in questo sta la loro carica negativa.
Non c’è nella cultura buddista
una così netta distinzione tra pensiero ed emozione. E in effetti, recenti
esperimenti hanno dimostrato che le zone del cervello stimolate dai pensieri e
dalle emozioni sono le stesse. Ciò fornisce evidenza scientifica al concetto
largamente diffuso nella sapienza popolare che quando siamo in preda ad un’emozione
pensiamo male e dobbiamo prima calmarci.
Come dice un proverbio toscano,
non si può soffiare e succhiare nello stesso momento. Allo stesso modo, ad
esempio, non si può provare contemporaneamente odio e amore. Gli “antidoti” per
le emozioni distruttive sono quindi le emozioni positive di natura opposta. Più
si sarà in grado di coltivarle, più si potrà riconoscere l’emozione negativa come
una semplice nube inconsistente, passeggera, dietro alla quale il sole continua
a brillare. Un uccello che attraversa il cielo senza lasciare traccia, un
disegno fatto sull’acqua, che subito scompare. Quando cominci ad abituarti a
riconoscere i pensieri quando insorgono, è come riconoscere velocemente
qualcuno che conosci in mezzo alla folla. Oh, sta arrivando quel pensiero. E’
il primo passo per evitare di esserne sopraffatti.
Più ci si allena a produrre stati
mentali positivi, come ad esempio la compassione, più questi diventano un’abitudine
e anche una base per controllare meglio le emozioni distruttive. E l'attenzione agli altri, il riconoscimento delle loro emozioni, ci permetterà di sentirci meno indifesi di fronte alle nostre.
Nelle scritture buddiste si parla
di ottantaquattromila tipi di emozioni negative, che si riconducono tuttavia a
cinque principali: odio, attaccamento, ignoranza, orgoglio e gelosia. Secondo
una prospettiva occidentale ci potrebbe essere qualche difficoltà a includere
nell’elenco l’attaccamento e l’ignoranza. Le diverse visioni sull’attaccamento
derivano da una concezione dell’ego molto più forte nella cultura occidentale.
L’ignoranza invece viene considerata dal buddismo un aspetto della mente che
provoca afflizione perché impedisce un riconoscimento lucido e vero della
realtà.
Tutte le emozioni, anche quelle
negative, hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo per la sopravvivenza e
per l’evoluzione della specie, come già affermato da Darwin nel 1872 (“L’espressione
delle emozioni nell’uomo e negli animali”). Essenzialmente il ruolo dell’emozione
è quello di indurci ad agire rapidamente, senza fermarsi a pensare, cosa che in
alcune situazioni può essere di vitale importanza. Tuttavia le differenze
biologiche individuali e le esperienze fatte espongono alcune persone ad una
maggiore difficoltà nel controllo delle proprie emozioni.
La zona del cervello preposta al
controllo delle emozioni si trova nell’area prefrontale, l’ultima emersa nel
corso dell’evoluzione. Le zone della corteccia frontale sinistra svolgono un
ruolo importante per le emozioni positive, mentre il lobo frontale destro lo
svolge per le emozioni negative. L’amigdala, che è una parte più primitiva del
nostro cervello, è fondamentale per i circuiti che attivano l’emozione stessa.
Infine l’ippocampo, che si colloca tra l’amigdala e la zona prefrontale è
dedicato alla comprensione del contesto delle emozioni e alla loro memoria.
Dunque quando proviamo un’emozione sono molte le zone del nostro cervello ad
entrare in azione.
La manifestazione delle emozioni,
tramite i nostri muscoli facciali, e tramite le nostre reazioni fisiologiche, è universale in tutto il mondo e in tutte le
culture, sono state fatte interessanti ricerche a questo proposito, tuttavia ci
sono notevoli differenze individuali circa la velocità e intensità con cui le
emozioni si manifestano e anche circa la durata dei loro effetti. Differenze
genetiche, ma pur sempre modificabili
con le esperienze e la pratica.
Nell’individuo che riesce a
recuperare più velocemente dopo un’emozione si riscontra un livello più basso di cortisolo, che è un
ormone che si produce in condizioni di stress, e anche una migliore
funzionalità di certi aspetti del sistema immunitario. Insomma, qui troviamo
anche il riscontro scientifico del detto popolare che lasciarsi vincere dalle
emozioni negative rende il sangue amaro, mentre il sorriso e una sincera
attenzione agli altri vanno anche a vantaggio della nostra salute.
Nel lungo e denso resoconto che
Goleman ha fatto degli incontri di Dharamsala (impossibile sintetizzare tutto
in poco spazio) mi hanno colpito soprattutto le relazioni di Richard Davidson,
pioniere della neuroscienza affettiva, di Paul Ekman, psicologo e più grande
esperto mondiale del riconoscimento delle emozioni sul viso delle persone (è stato ovviamente consulente delle forze
dell’ordine e dei servizi segreti), di Matthieu Ricard, monaco buddista,
scienziato, figlio del filosofo francese Jean François Revel (insieme a lui
scrisse il pamphlet “Il monaco e il filosofo”, dialogo su scienza e
spiritualità) e Mark Greenberg psicologo specializzato in programmi di
apprendimento sociale ed emotivo per bambini. Molto interessante anche il primo
capitolo, che spiega dettagliatamente gli esperimenti svolti da Davidson e da
Ekman sul controllo delle emozioni di un monaco tibetano, il Lama Öser. Tali
esperimenti seguirono i colloqui di Dharamsala e portarono ulteriori riscontri
scientifici a molte delle tesi discusse.
Segnalo anche quest’ottima recensione che ho trovato sul
web:
http://www.corem.unisi.it/bibliografia/recensioni/goleman_emozioni_distruttive.pdf
Matthieu Ricard |
Richard Davidson |
Mark Greenberg |
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