lunedì 21 agosto 2017

Giuseppe Berto, Il male oscuro

Di questo romanzo mi ha colpito innanzi tutto lo stile.
E’ un lunghissimo monologo nel quale i periodi, già piuttosto lunghi fino a circa metà del volume, man mano che ci si addentra nella psiche del protagonista-narratore diventano un fluire continuo, aumentano progressivamente di lunghezza e si può arrivare a leggere quasi cinquanta pagine prima di trovare un punto e tirare il fiato.
In qualche modo mi ha ricordato l’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce, quello con i pensieri di Molly, scritto completamente senza punteggiatura. Niente paura: Berto le virgole le mette, ma ugualmente ci fa fluttuare in una continua corrente di pensieri, parole, ripetizioni, ossessioni, che richiede grande padronanza di scrittura e soprattutto un’intensità di contenuti fuori dal comune.
E infatti la seconda cosa che mi ha molto impressionato è come si possano scrivere trecentocinquanta dense e fittissime pagine guardando continuamente il proprio ombelico, anzi descrivendo centimetro per centimetro il proprio intestino e allo stesso tempo raccontare lo smarrimento di un’intera generazione, di un ambiente sociale, per certi versi persino di una nazione.
“Anche narrando la propria vita uno può narrare la vita umana” dichiarò Berto in un’intervista all’uscita del romanzo, nel 1964.
Giuseppe Berto, classe 1914, era figlio di un carabiniere “nei secoli fedele” al Re, poi divenuto cappellaio nella provincia veneta ma con scarsissima attitudine al commercio, data la natura di uomo tutto d’un pezzo che l’esperienza militare, l’ambiente provinciale, le ristrettezze economiche e i valori imbevuti di retorica patriottica tardo risorgimentale non avevano contribuito ad ammorbidire.
L’inquietudine di Berto, la ribellione al clima soffocante familiare e provinciale (abbondantemente assimilato nei principi e nei valori, dunque la ribellione è un po’ contro una parte di se stesso) lo porta ad arruolarsi in Africa con le camicie nere, a spendere in guerra gli anni migliori, cercando anche la bella morte come estrema forma di gloria e liberazione, per poi tornare sfinito, vinto e disilluso in una società ormai trasformata, estranea e aliena, popolata da uomini nuovi dai quali si sente lontanissimo, ragion per cui coltiva la vocazione, e anche un po’ il gusto, di restare ai margini.
Non a caso, Berto ebbe tra i suoi primi estimatori Indro Montanelli (classe 1909) con il quale condivise alcune esperienze e stati d’animo: dalle frequenti crisi depressive all’Abissinia vissuta con giovanilistico anelito di fuga e avventura, alla ricorrente polemica contro la nuova cultura dominante affermatasi dopo la Liberazione.
I personaggi principali e le figure chiave di questo romanzo non hanno un nome e si riconoscono come “il padre”, “la sorella maggiore”, “la vedova”, “la ragazzetta”, “la moglie”, “il vecchietto”, “il luminare” etc., puri strumenti di descrizione del male oscuro del protagonista e della sua solitudine in una società che sembra disinteressarsi di qualsiasi cosa che non riguardi i consumi, il benessere materiale, il progresso, i nuovi prodotti.
Il male oscuro che lo ha così tanto tormentato, sembra volerci dire Berto, è comune a molti, ma pochi ne hanno parlato direttamente e senza finzione poetica.
Eppure, come recita Eschilo in una delle epigrafi in esergo: “il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore”. Dunque Berto si racconta e lo fa talmente impudicamente che solo grazie ad un’arguta ed efficacissima ironia riesce a non farci distogliere lo sguardo, anzi a farsi seguire tra ospedali e lettini per terapia psicoanalitica neanche si trattasse della fuga del Corsaro Nero nella foresta di Maracaibo.
La citazione di Eschilo è tratta dal Prometeo: la ribellione verso il proprio microcosmo e le aspirazioni negate. Le altre due epigrafi che aprono il romanzo sono di Freud, imprescindibile, visti i continui (anche divertenti) riferimenti alla psicoanalisi e di Carlo Emilio Gadda (La cognizione del dolore) che insieme a Svevo (La coscienza di Zeno) viene indicato dallo stesso Berto come nume tutelare della sua opera.
Gadda, dal quale Berto trasse ispirazione anche per il titolo del romanzo, gli diede anche la soddisfazione di un pubblico encomio in radio.
E a proposito di soddisfazioni: come deve essere stato vincere il Campiello, a Venezia, lui nato a Mogliano Veneto da un carabiniere nei secoli fedele che gli profetizzava un futuro fatto di galera e fallimenti?

“e così scavo nella mia solitudine e nel mio avvilimento pensando che un giorno gliela farò vedere a tutti questi veneziani chi sono io”.

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