Va bene, questa volta niente
“suspense”: l’assassino è svelato fin
dall’inizio, a partire da titolo, sottotitolo e copertina. E girate poche pagine c’è anche
la sentenza di condanna definitiva: “Nessun bandito della storia ha mai potuto
sognarsi di infliggere tanti danni alla collettività quanto ne hanno fatti i
banchieri”.
Federico Rampini lancia il sasso,
non ritira la mano, anzi punta l’indice e fa nomi e cognomi, con poche
sorprese, ma con motivazioni non del tutto scontate.
Dopo l’invettiva troviamo il
ragionamento. Sì, perché pagina dopo pagina si scopre che Rampini certamente
non ama i banchieri, ma soprattutto li considera il centro nevralgico di un
sistema che complessivamente non funziona. Picchia duro, con un pizzico di
demagogia, sulla parte più esposta e meno difendibile dell’ingranaggio, ma in
capitoli significativamente intitolati “Il lavoro che verrà”, o “In cerca del
nuovo” prende a ragionare sul nostro
intero sistema di sviluppo.
Se vi sembra che la parola “sistema” rievochi
troppo il linguaggio
vetero-marxista degli anni settanta, fatevene una ragione perché pare che Karl
Marx sia diventato molto “cool” a Wall Street e dintorni. Qualche guru
dell’economia del ventunesimo secolo ha sfidato polvere e ragnatele per rileggersi
le ottocentesche previsioni sui processi di concentrazione industriale, ovvero
pochi grandi “players” che riescono a sopravvivere in ogni settore, o sulla
continua corsa al ribasso dei salari dovuta alla riserva crescente di
disoccupati e sotto occupati, o sulla crisi di sovrapproduzione provocate dalla
compressione del potere d’acquisto dei lavoratori, o sull’eccesso di speculazione
finanziaria, responsabile dell’amplificarsi delle diseguaglianze.
La tesi di fondo è che se i
banchieri, inclusi i banchieri centrali con compiti di vigilanza, hanno potuto
combinare tanti disastri, ciò è avvenuto anche perché da trent’anni ci si sta
cullando nell’illusione che i mercati si regolino da soli e che meno si
interviene nell’economia, meglio è. Senza scomodare Keynes, gli esempi in
controtendenza citati da Rampini sono quello di Henry Ford (che raddoppiò i
salari dei suoi operai perché si potessero permettere di comprare le sue auto)
di Adriano Olivetti (che era Adriano Olivetti) e dei Paesi Scandinavi nei quali
un amministratore delegato può guadagnare fino a 6 volte la retribuzione di un
operaio e non fino a 600 volte come negli USA.
Poiché i sapienti e i tecnici brancolano
nel buio e non si vedono vie d’uscita, l’unica certezza è che con le crisi, più
o meno frequenti, lunghe o profonde, bisogna imparare a convivere. Per questo
gli economisti da un anno a questa parte hanno scoperto una parola nuova,
prendendola da altre attività umane: è la parola “resilienza”, ovvero la
capacità di resistere agli urti senza spezzarsi, di superare un trauma senza abbattersi, di
ritrovare l’equilibrio dopo uno shock. L’economia chiede aiuto alla filosofia,
per trovare comportamenti più saggi, stili di vita più equilibrati. Cresce la
consapevolezza che una parte di “povertà” è in realtà il frutto di bisogni
creati artificialmente da un’insana corsa a produrre più del necessario, ad
accumulare, consumare e sprecare. Quando per qualche motivo si è costretti a cambiare
passo, a rallentare, superato lo smarrimento e la paura iniziali si può
scoprire che da lì si può partire alla
ricerca della “buona vita” o anche reinventarsi una nuova vita.
E alla trentenne che gli fece una
domanda che continuò a frullargli in testa per tutta la notte, Rampini dà tre
consigli: ripartire dagli errori e dai fallimenti delle generazioni passate, guardare
anche a chi è indietro e non solo a chi sta davanti e confidare che un futuro, anche
nei tempi più bui, c’è sempre.
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