“Torto
marcio” di Alessandro Robecchi è un giallo ambientato a Milano, dove nella
primavera 2017 avvengono degli strani omicidi nei quali sopra il corpo della
vittima viene misteriosamente deposto un sasso. Massoneria? Islamisti?
Terroristi? E le vittime? Cos’hanno in comune, quali vite hanno vissuto, quali
sono stati i loro affetti, affanni, affari e segreti?
La
verità ha molte facce, maschere, sembianze, travestimenti. C’è la famelica verità
giornalistica, degli opinionisti e degli editorialisti per cui ogni fatto è la
conferma di una teoria, il pretesto per la sferzata quotidiana a qualche comodo
bersaglio, l’occasione per frenare l’emorragia di vendite e di lettori. C’è la perfida
verità del gossip, della maldicenza e dell’osceno commercio di sentimenti di
cui pullula lo show business. C’è l’ambigua verità dell’ideologia, che spesso riempie
le menti più deboli fino a confonderle e, per mezzo di ingannevoli certezze, trasfigura
falsamente anche le azioni più abiette. C’è l’ingarbugliata verità giudiziaria, dei
verbali di polizia e delle sentenze: una matassa di fili di cui si perde quasi
sempre il capo, o la coda, o un tratto più o meno lungo, dunque una verità
sempre incompleta, sbiadita e innaturale. C’è la rassegnata verità degli
ultimi, di quelli hanno che sempre saputo che gli ultimi resteranno sempre
ultimi e non si lasciano fagocitare da nient’altro che da questa unica amara verità.
E infine ci sono i fatti, nudi e crudi, senza additivi, ricette, commenti e
spiegazioni.
Con
“Torto marcio” Alessandro Robecchi scrive una storia facendo un inevitabile uso
di cliché da romanzo poliziesco, con l’aggiunta di un evitabile (ma per la
verità più contenuto) uso di cliché sociologici e la popola dei suoi personaggi
ricorrenti: l’autore televisivo Monterossi, il sovrintendente di polizia
Carella, il vice sovrintendente Ghezzi. Ci offre anche una topografia di Milano
spaccata a metà, tra i vincenti, che hanno avuto tutto, e gli ultimi, che hanno
perso tutto, o non hanno mai avuto niente, né mai l’avranno. Salvo poi scoprire
che gli estremi si toccano, per certi tratti si confondono, prima di dividersi
tra chi è destinato a “due lire bastarde e spavento” e chi invece potrà
permettersi i migliori studi, un buon matrimonio, una bella casa in centro, soldi,
fama, potere.
Mi
sono molto piaciuti quasi tutti i personaggi della storia, soprattutto quelli dei
ceti più popolari, che danno immediatezza e spontaneità alla narrazione. Mi ha
colpito la bizzarria di alcuni, tipo il ladro imbranato che però sa riconoscere
al volo le opere di Balla e Depero. La signora Ghezzi mi ricorda, non so perché,
la signora Maigret. Monterossi e Ghezzi ci propongono infine l’elogio
dall’alternativo: ci raccontano tutta la bellezza, la difficoltà e l’amarezza della
condizione di chi vorrebbe tanto essere normale, ma nell’acqua in cui è
costretto a nuotare gli tocca andare sempre controcorrente. Pesci fuor d’acqua
e fuori dal tempo, che anche quando fanno centro e ottengono una vittoria,
scoprono che ha un sapore ancora più aspro e amaro della sconfitta.
Il romanzo si chiude significativamente sulle note di Bob
Dylan:
Most of the time/I'm halfway content/Most of
the time/I know exactly where it all went/I don't cheat on myself/I don't run
and hide/Hide from the feelings/That are buried inside/I don't compromise/And I
don't pretend/I don't even care/If I ever see her again/Most of the time
Nessun commento:
Posta un commento