“I ragazzi Burgess”, penultimo romanzo di Elizabeth
Strout, ci parla della complessità dei rapporti famigliari, di quanto possono essere chiuse le piccole comunità paesane, della difficoltà di capirsi fra diversi, ma è anche una lettura godibile e rilassante, come guardare una commedia holliwoodiana anni ’50 alle
cinque del pomeriggio. Potete leggere la trama e altre recensioni qui.
Il prologo, nel quale due vedove, madre e figlia, conversano e rievocano le comuni conoscenze , scostando pensosamente le tende per
guardare le betulle, dà il tono all’intera narrazione, come se l’autrice
volesse ammorbidire l’impatto degli eventi più drammatici, stemperandoli nella
luce tiepida del suo stile confortevole.
Seguendo i personali ricordi delle due
signore, si fa velocemente amicizia con Jim, Bob e Susan Burgess, si conoscono
i rispettivi coniugi e anche Zachary, il ragazzo ignorantello e impaurito che
dà impulso alla storia e ne sostiene la trama fino almeno a metà.
Nella prima parte i personaggi sono vivi e credibili, pur
riconducendosi ciascuno a qualche archetipo del cittadino americano, e sono ben
inseriti in tematiche culturali e sociali appena tratteggiate, per non
disturbare troppo i personaggi in primo piano, eppure rese efficacemente.
Da metà in poi, il romanzo ha una svolta, il motore iniziale
della storia rallenta e si spegne e rimangono i personaggi, soli e nudi e senza
maschera. “Nessuno mi può giudicare” potrebbe essere il titolo di questa
seconda parte o, come la vedova più anziana afferma nel prologo, “nessuno
conosce mai veramente qualcuno”. E' nella seconda parte che l'attenzione si sposta dalle dinamiche sociali a quelle famigliari.
L’eroe abile, disinvolto e pragmatico della prima parte,
quello attento ai bisogni e alle debolezze umane (per prendersene cura, nel
caso dei propri familiari, oppure per sfruttarli a proprio vantaggio, nel caso
di avversari e ostacoli nella battaglia per la vita), il self made man che non
sopporta i gretti razzisti ma è ugualmente allergico alle ipocrisie dei
moralisti di professione e infastidito dal fanatismo del “politically correct”,
l’uomo fuggito dall’ambiente chiuso del Maine e che riesce a non farsi
fagocitare dalla Grande Mela, il professionista di successo, il marito
invidiato, il padre che tutti vorrebbero avere ha un suo lato oscuro. Non
sorprende che ci sia, perché ce lo aspettavamo e avevamo messo in conto che
potesse essere esattamente “quello”. Sorprende piuttosto che questa scoperta
abbia il potere di mandare in frantumi il personaggio e buona parte del
mordente della storia.
Il romanzo funziona ancora, perché a questo punto il lettore
è stato saldamente agganciato all’amo, però non c’è più la naturale scioltezza
dell’avvio.
Una volta chiuso e rimesso il libro al suo posto sullo
scaffale, ci capiterà di ripensare a Jim, Bob, Susan, Hellen, Pam e Zach come a
persone incontrate in una lunga e piacevole vacanza, che ci hanno fatto
divertire, ci hanno confidato qualche segreto e resi partecipi di qualche
angoscia, senza tuttavia risultare mai invadenti, né noiosi. Tutti insieme ci
hanno confermato che la famiglia è un delicatissimo intrico di sottili equilibri e che gli Stati Uniti d’America sono un posto dove è molto
complicato nascere, crescere e vivere. Insomma, ce n’è di che rimanere
soddisfatti, alle cinque del pomeriggio, tra un biscottino e l’altro, con il
sole che filtra delicato dalle tende, mentre fuori il vento accarezza le betulle.
“Che cosa farò, Bob? Non ho più una famiglia”.
“Sì che ce l’hai”, rispose Bob. “Hai una moglie che ti odia. Tre figli che ce l’hanno a morte con te. Un fratello e una sorella che ti fanno impazzire. E un nipote che una volta era una nullità, ma a quanto parte ultimamente lo è un po’ meno. Questo è ciò che si definisce una famiglia”.
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