Al Palazzo della Ragione di Milano,
fino all’11 settembre si può visitare la mostra fotografica dedicata a William
Klein.
Mostra molto
interessante su un artista poliedrico e anticonformista, che ha creato un suo
personalissimo stile nella fotografia.
Nato a New
York nel 1928 da famiglia ebrea di origini ungheresi, fin da ragazzo si
appassiona all’arte e alla letteratura. A quattordici anni inizia a
studiare sociologia al college e a diciotto anni interrompe gli studi per
entrare come operatore radio nell’esercito d’occupazione in Germania, poi a
Parigi. Qui studia alla Sorbona con André Lhote e Fernand Léger, conosce
la moglie Florin e diventa pittore. Le sue opere sono astratte e
ispirate alle geometrie del Bauhaus, a Mondrian e Max Bill.
Nel 1952 viene
chiamato da Giorgio Strehler a Milano per esporre al Piccolo Teatro. Subito
dopo collabora con l’architetto Angelo Mangiarotti (Léger consigliava di
lavorare come i pittori del Quattrocento, collaborando con gli architetti) per
delle pitture murali che lui decide di eseguire su pannelli mobili, scoprendo
l’enorme varietà di forme che si ottengono con la loro rotazione.
Nel 1954
torna a New York e senza avere particolari conoscenze di fotografia, realizza
un diario fotografico della sua città d’origine, forse seguendo un altro
consiglio di Léger: “Lascia perdere i musei e le gallerie, pensa solo alla
strada.” Le immagini di Klein colpiscono perché sovvertono i canoni fino ad
allora seguiti in fotografia, che si erano imposti soprattutto attraverso Henry
Cartier Bresson, secondo il quale la fotografia doveva essere pulita,
oggettiva, ordinata. Klein sovverte tutto questo in nome del realismo e dunque
esegue primi piani molto ravvicinati, crudi, immagini a volte sfocate, o
sgranate, sempre molto piene di persone e di oggetti, con molte linee di
movimento al proprio interno. Per ironia della sorte, Klein fotografa con
una macchina appartenuta proprio a Cartier-Bresson. Però rinuncia al
tradizionale obiettivo 50 mm, privilegiando spesso il grandangolo da 28 mm per
riempire il più possibile le sue immagini.
Ecco come lo
stesso Klein descrive le sue prime esperienze fotografiche per le strade di New
York:
“Era come se
fossi un etnografo: trattavo i newyorkesi come un esploratore avrebbe trattato
uno zulu, cercando lo scatto più crudo, il grado zero della fotografia. Nel mio
libro su New York, c’era un sottotitolo, stile tabloid. Trance Witness
Revels. Tre parole che per me allora riassumevano tutto ciò che avevo da
dire sulla fotografia. Chance Witness è chi capita per caso su una
tragedia. Revels è un gioco di parole con reveals. Rivelare, ma
anche gozzovigliare. Il tutto sotto il segno della trance. Riscoprivo la mia
città e riscoprivo la fotografia. Privo di formazione e senza tante conoscenze,
mi dovevo ingegnare con quello che ottenevo. La mia formazione era diversa:
disegno, litografia, pittura – che tentavo di applicare alla fotografia. Quello
che i professionisti avrebbero gettato nel cestino per me era un eccellente
materiale da rilavorare”.
Il libro su
New York ottiene un immediato grande successo. Nel 1956 Federico Fellini invita
William Klein a Roma, chiedendogli di fargli da assistente per il film Le notti di Cabiria. Le riprese vengono
tuttavia posticipate e così Klein inizia a girare per Roma con guide
d’eccezione come Flaiano, Moravia e Pasolini. Nasce un libro fotografico anche
su questa città.
Ascoltiamo nuovamente Klein:
Ascoltiamo nuovamente Klein:
“Roma è la mia città fortunata. Nel 1956 pubblicai il
mio libro fotografico su New York. All’epoca sorprese, sconvolse e influenzò
un’intera generazione di fotografi. In quel periodo ero soprattutto un pittore
astratto, ma la pittura geometrica e hard
edge che praticavo non mi consentiva di dire la mia sul mondo intorno a me.
Fu così che provai a sperimentare con la fotografia. Dopo il libro su New York
sentivo di aver detto tutto quello che volevo con una macchina fotografica e il
mio successivo obiettivo diventò il cinema. Ero un appassionato di Fellini e
riuscii a combinare un incontro con lui a Parigi. Desideravo dargli una copia
del mio libro. Lui mi disse: ce l’ho già, la tengo vicino al letto. Ma perché
non vieni a Roma e diventi mio assistente? Ero nel cuore dei miei vent’anni e
così senza problemi arrivai a Roma. Naturalmente Federico aveva già uno stuolo
di assistenti ma, ad ogni modo lavorai con lui al casting di Le notti di Cabiria, documentando un
intero esercito di prostitute e protettori. Il film però fu rimandato e io mi
ritrovai a pensare:va bene ho fatto un libro su New York, allora perché non
farne uno anche su Roma?”
Klein collaborò a lungo con Vogue (anche il suo primo libro su New York fu realizzato per l’interessamento di Alex Liberman, pittore ed editore di Vogue America), ma anche come fotografo di moda fu sempre propenso a rompere gli schemi:
Klein collaborò a lungo con Vogue (anche il suo primo libro su New York fu realizzato per l’interessamento di Alex Liberman, pittore ed editore di Vogue America), ma anche come fotografo di moda fu sempre propenso a rompere gli schemi:
“Quando mi mostrarono gli abiti mi fu immediatamente chiaro che le modelle avrebbero attraversato piazza di Spagna sulle strisce pedonali. Sfilando avanti e indietro, si sarebbero incrociate e avrebbero reagito l’una all’altra. Per appiattire la prospettiva, progettai di salire sulla scalinata della piazza e usare un teleobiettivo. Le ragazze passeggiarono avanti e indietro fino a quando iniziarono a catturare l’attenzione dei passanti. Ero in cima alla scalinata con la mia macchina fotografica, all’insaputa della gente. Gli uomini iniziarono a pensare che fossero prostitute impazzite e si avvicinarono, cercando di palparle. La direttrice di Vogue iniziò a innervosirsi, temendo se non uno stupro di gruppo, un blocco del traffico”.
Tra il 1959 e il 1960 Klein si reca in Russia per
lavorare ad un libro fotografico su Mosca, che fu pubblicato nel 1964.
“Come tutti, anch’io mi ero fatto un’idea dell’Unione
Sovietica.E nella mia mente c’erano anche le immagini di Vertov, Rodčenko e
compagnia bella, così come le inquadrature televisive del Presidium, quelle
mummie decorate con grugni che sembravano le porte di una prigione. Temevo che
mi sarei ritrovato in una città chiusa, noiosa. Ma poi provai una sorta di
emozione – niente a che vedere con la rabbia che mi ispirava New York – una
specie di malinconia vagamente disperata, quasi tenera, non lontana dal
sentimento che avevo provato, in gioventù, leggendo i romanzi russi”.
Nel 1961 è la volta di Tokio, altra città e altro libro:
Nel 1961 è la volta di Tokio, altra città e altro libro:
Infine non poteva mancare la città nella quale Klein
ha scelto di vivere, fin dagli studi alla Sorbona e dalle sue prime esperienze
come pittore, Parigi. Klein la ritrae prevalentemente piena di gente,
frettolosa, multietnica, multiculturale, colorata, molto lontana dal cliché
della città romantica e brumosa di tanti altri artisti.
Negli anni Novanta Klein ritorna alle origini, nel
senso che riprende in mano i pennelli e rielabora alcune sue celebri opere:
“Ripresi in mano i pennelli per la prima volta dopo
molti anni. Ma riprodurre le linee, i cerchi e le croci che tutti i fotografi
del mondo usano per evidenziare gli scatti scelti non mi bastava.
Vidi la possibilità di inventare un nuovo tipi di
oggetti artistici coniugando in modo organico, non arbitrario, pittura e
fotografia.
Stranamente, il mio metodo di lavoro era completamente
diverso da quello che utilizzavo quando stavo con Léger e anche dopo, al tempo
delle astrazioni geometriche hard edge. Per Léger le pennellate di Van Gogh,
Picasso e degli action painters erano
bandite. Le forme dovevano avere contorni netti e superifici piatte… Ma quando
iniziai a dipingere i provini ci furono solo pennellate di esultanza.
L’esultanza della pittura richiamava la gioia che si prova scattando una
fotografia. Per me scattare una foto era una gioia, era un’esperienza fisica
che mi dava la carica”