Alla fine mi è piaciuto. Parto da questa
considerazione banale, che per me è anche l’arrivo di un percorso abbastanza
travagliato.
Non mi è
piaciuto subito questo romanzo vincitore del Campiello 2014: l’ho dovuto
abbandonare dopo cento pagine, leggere qualcosa nel frattempo, riprendere
vincendo lo scetticismo, ricominciare daccapo e farmi conquistare pagina dopo
pagina, versando anche qualche lacrima nel finale, segno che emotivamente mi
aveva ormai catturato.
Morte di un
uomo felice è la storia di Giacomo Colnaghi, magistrato impegnato nelle
indagini sul terrorismo rosso, nome di fantasia ispirato però ad alcuni casi
realmente esistiti di uomini eroicamente normali, “eroi borghesi” per
richiamare un titolo che ha aperto la strada a un filone affollato e fortunato
a cavallo tra narrativa e testimonianza.
Giacomo
Colnaghi viene assassinato nel 1981, lo stesso anno di nascita dell’autore,
Giorgio Fontana. Non deve essere stato facile cercare di documentarsi su un
periodo che non si è vissuto, ma del quale esiste ancora una memoria molto
nitida e precisa in tante persone. Diciamo quindi subito che l’ambientazione è
uno dei punti di debolezza di questo romanzo. Gli anni settanta possono essere
descritti in tanti modi, ma non c’è dubbio che chi li ha vissuti si ricorda una
caratteristica su tutte: erano anni iperpoliticizzati.
Tutto era
intriso di politica, anche le cose che con la politica c’entravano poco o
nulla: l’arte, il cinema, la musica, la letteratura, l’amore, lo sport, la
scuola, la cronaca, l’economia, il lavoro, la religione, tutto.
Questo non
emerge più di tanto nel romanzo, dove la nota che spicca è piuttosto il profumo
di pulito e di ordine che si respira nelle case delle suore, semplicità,
scherzi da prete, un po’ di noia, battute da sagrestia, Bernanos e riflessioni
morali lontane anni luce dagli slogan virulenti e primordiali degli anni di
piombo.
Colnaghi è
un cattolico di sinistra, figlio di un partigiano ucciso dai fascisti, quelli
veri, ma è anche un uomo che si interroga e vuole capire, partendo dalla sua storia
di figlio, di padre, di marito, di cristiano praticante.
Il
personaggio funziona, alla grande, e alla lunga si impone e fa scivolare il
contesto in un secondo piano molto sfocato. Gli ambienti che frequenta, la sua
storia personale, i suoi tormenti, la sua normale quotidianità sono
un’alternativa valida, sana e pulita a percorsi molto più chiassosi e
superficiali, che hanno goduto, e in qualche modo continuano a godere, di ampia
popolarità mediatica.
Nel
tentativo di darci una rappresentazione “viva” del protagonista, Fontana
attinge forse un po’ troppo insistentemente alle proprie esperienze di studente
fuori sede: le Ferrovie Nord (l’autore e il suo personaggio sono di Saronno),
l’appartamentino a Lambrate, la bicicletta, la topografia minima dei luoghi
dove si mangia “un panino stupendo”, la trattoria sui Navigli, le passeggiate
notturne e solitarie nelle vie del centro, il bar di periferia.
Non riesce
ad andare molto più in là, né ad immedesimarsi veramente nella psicologia di un
uomo che si avvia alla mezza età: gli fa fumare la pipa (gesto totalmente fuori
linea rispetto agli tratti del protagonista), gli crea dialoghi da sbadiglio
con la moglie e un’astinenza sessuale prolungata. Stop. Funziona meglio con la
madre, con il figlio e con gli amici, rapporti che il trentenne Fontana
descrive in modo meno impacciato, trovandosi maggiormente a suo agio.
E allora
perché funziona il protagonista e la sua storia? Vista dall’esterno, appare un
po’ posticcia e stiracchiata, costruita su spunti un po’ scontati (il
magistrato e il terrorista che partono dallo stesso ambiente sociale,
frequentano entrambi l’oratorio e poi approdano a scelte di vita opposte) e su
riflessioni non particolarmente originali (lo Stato che tradisce la Resistenza,
i terroristi rossi che ne sporcano il nome e ne usurpano gli ideali) ma
l’esterno non è il punto giusto dove posizionarsi. Ciò che inizialmente mi sembrava un ostacolo a proseguire nella lettura, successivamente
l’ho interpretato come il segno di una scrittura ancora un po’ acerba, di una
maturità ancora non raggiunta, nell’ambito di un’opera nell’insieme bella,
utile ed efficace.
Il romanzo
funziona nel momento in cui si capisce che non si tratta di un libro sugli anni
di piombo.
Funziona
quando si capisce che si tratta di una storia intima, che ci parla della
difficoltà dei figli ad essere all’altezza dei padri, del paradosso per cui la
normalità finisce spesso per diventare il vero eroismo, della difficoltà che le
persone libere hanno ad esprimere se stesse, perché la loro indipendenza
rischia continuamente di essere strumentalizzata da chi (la stragrande
maggioranza) ha una concezione più tribale della vita, del lavoro, della
società.
Da questa
prospettiva riacquistano un senso i dialoghi scontati, i frammenti di piatta
quotidianità che altrimenti sembrerebbero indice di scarsa fantasia e di
scrittura esangue. Invece, silenziosamente e inaspettatamente, Giacomo Colnaghi
e suo padre Ernesto, il partigiano Beppo la cui storia viene raccontata in
parallelo a quella del figlio, riescono a conquistarti, ti ci affezioni,
probabilmente li ricorderai bene e a lungo.
Il romanzo
nasce da un interrogativo sulla giustizia, sul modo di fare giustizia, di
essere magistrato.
L’autore lo
dichiara nella nota finale: "questo libro forma un dittico ideale con il
precedente Per legge superiore”. Un dittico sulla giustizia. Applicare
le leggi in
modo cinico
e notarile oppure spellarsi mani e piedi per cercare un diverso senso di
giustizia, andare incontro a numerose frustrazioni e magari rimetterci la vita.
Un interrogativo valido, importante, una grande questione su cui riflettere, ma
anche il peccato originale del romanzo, che in certe parti risulta un po’
imbrigliato dai suoi stessi schemi.
In
definitiva un’opera interessante, consigliabile, e uno scrittore da seguire
nelle sue prossime prove.
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