giovedì 21 maggio 2015

Giorgio Fontana, Morte di un uomo felice




Alla fine mi è piaciuto. Parto da questa considerazione banale, che per me è anche l’arrivo di un percorso abbastanza travagliato.

Non mi è piaciuto subito questo romanzo vincitore del Campiello 2014: l’ho dovuto abbandonare dopo cento pagine, leggere qualcosa nel frattempo, riprendere vincendo lo scetticismo, ricominciare daccapo e farmi conquistare pagina dopo pagina, versando anche qualche lacrima nel finale, segno che emotivamente mi aveva ormai catturato.

Morte di un uomo felice è la storia di Giacomo Colnaghi, magistrato impegnato nelle indagini sul terrorismo rosso, nome di fantasia ispirato però ad alcuni casi realmente esistiti di uomini eroicamente normali, “eroi borghesi” per richiamare un titolo che ha aperto la strada a un filone affollato e fortunato a cavallo tra narrativa e testimonianza.

Giacomo Colnaghi viene assassinato nel 1981, lo stesso anno di nascita dell’autore, Giorgio Fontana. Non deve essere stato facile cercare di documentarsi su un periodo che non si è vissuto, ma del quale esiste ancora una memoria molto nitida e precisa in tante persone. Diciamo quindi subito che l’ambientazione è uno dei punti di debolezza di questo romanzo. Gli anni settanta possono essere descritti in tanti modi, ma non c’è dubbio che chi li ha vissuti si ricorda una caratteristica su tutte: erano anni iperpoliticizzati.

Tutto era intriso di politica, anche le cose che con la politica c’entravano poco o nulla: l’arte, il cinema, la musica, la letteratura, l’amore, lo sport, la scuola, la cronaca, l’economia, il lavoro, la religione, tutto.

Questo non emerge più di tanto nel romanzo, dove la nota che spicca è piuttosto il profumo di pulito e di ordine che si respira nelle case delle suore, semplicità, scherzi da prete, un po’ di noia, battute da sagrestia, Bernanos e riflessioni morali lontane anni luce dagli slogan virulenti e primordiali degli anni di piombo.

Colnaghi è un cattolico di sinistra, figlio di un partigiano ucciso dai fascisti, quelli veri, ma è anche un uomo che si interroga e vuole capire, partendo dalla sua storia di figlio, di padre, di marito, di cristiano praticante.

Il personaggio funziona, alla grande, e alla lunga si impone e fa scivolare il contesto in un secondo piano molto sfocato. Gli ambienti che frequenta, la sua storia personale, i suoi tormenti, la sua normale quotidianità sono un’alternativa valida, sana e pulita a percorsi molto più chiassosi e superficiali, che hanno goduto, e in qualche modo continuano a godere, di ampia popolarità mediatica.

Nel tentativo di darci una rappresentazione “viva” del protagonista, Fontana attinge forse un po’ troppo insistentemente alle proprie esperienze di studente fuori sede: le Ferrovie Nord (l’autore e il suo personaggio sono di Saronno), l’appartamentino a Lambrate, la bicicletta, la topografia minima dei luoghi dove si mangia “un panino stupendo”, la trattoria sui Navigli, le passeggiate notturne e solitarie nelle vie del centro, il bar di periferia.

Non riesce ad andare molto più in là, né ad immedesimarsi veramente nella psicologia di un uomo che si avvia alla mezza età: gli fa fumare la pipa (gesto totalmente fuori linea rispetto agli tratti del protagonista), gli crea dialoghi da sbadiglio con la moglie e un’astinenza sessuale prolungata. Stop. Funziona meglio con la madre, con il figlio e con gli amici, rapporti che il trentenne Fontana descrive in modo meno impacciato, trovandosi maggiormente a suo agio.

E allora perché funziona il protagonista e la sua storia? Vista dall’esterno, appare un po’ posticcia e stiracchiata, costruita su spunti un po’ scontati (il magistrato e il terrorista che partono dallo stesso ambiente sociale, frequentano entrambi l’oratorio e poi approdano a scelte di vita opposte) e su riflessioni non particolarmente originali (lo Stato che tradisce la Resistenza, i terroristi rossi che ne sporcano il nome e ne usurpano gli ideali) ma l’esterno non è il punto giusto dove posizionarsi. Ciò che inizialmente mi sembrava un ostacolo a proseguire nella lettura, successivamente l’ho interpretato come il segno di una scrittura ancora un po’ acerba, di una maturità ancora non raggiunta, nell’ambito di un’opera nell’insieme bella, utile ed efficace.

Il romanzo funziona nel momento in cui si capisce che non si tratta di un libro sugli anni di piombo.

Funziona quando si capisce che si tratta di una storia intima, che ci parla della difficoltà dei figli ad essere all’altezza dei padri, del paradosso per cui la normalità finisce spesso per diventare il vero eroismo, della difficoltà che le persone libere hanno ad esprimere se stesse, perché la loro indipendenza rischia continuamente di essere strumentalizzata da chi (la stragrande maggioranza) ha una concezione più tribale della vita, del lavoro, della società.

Da questa prospettiva riacquistano un senso i dialoghi scontati, i frammenti di piatta quotidianità che altrimenti sembrerebbero indice di scarsa fantasia e di scrittura esangue. Invece, silenziosamente e inaspettatamente, Giacomo Colnaghi e suo padre Ernesto, il partigiano Beppo la cui storia viene raccontata in parallelo a quella del figlio, riescono a conquistarti, ti ci affezioni, probabilmente li ricorderai bene e a lungo.

Il romanzo nasce da un interrogativo sulla giustizia, sul modo di fare giustizia, di essere magistrato.

L’autore lo dichiara nella nota finale: "questo libro forma un dittico ideale con il precedente Per legge superiore”. Un dittico sulla giustizia. Applicare le leggi in

modo cinico e notarile oppure spellarsi mani e piedi per cercare un diverso senso di giustizia, andare incontro a numerose frustrazioni e magari rimetterci la vita. Un interrogativo valido, importante, una grande questione su cui riflettere, ma anche il peccato originale del romanzo, che in certe parti risulta un po’ imbrigliato dai suoi stessi schemi.

In definitiva un’opera interessante, consigliabile, e uno scrittore da seguire nelle sue prossime prove.

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