Pubblicato nel 1994 all'interno della raccolta "Pensare con i piedi", Il rigore più lungo del mondo di Osvaldo Soriano è considerato da molti il più bel racconto sul calcio che sia mai stato scritto.
Il rigore più fantastico di cui io abbia notizia è stato
tirato nel 1958 in un posto sperduto
di Valle de Rìo Negro, una domenica pomeriggio in uno
stadio vuoto. Estrella Polar era un
circolo con i biliardi e i tavolini per il gioco delle
carte, un ritrovo da ubriachi lungo una strada
di terra che finiva sulla sponda del fiume. Aveva una
squadra di calcio che partecipava al
campionato di Valle perché di domenica non c'era altro da
fare e il vento portava con sé la
sabbia delle dune e il polline delle fattorie.
I giocatori erano sempre gli stessi, o i fratelli degli
stessi. Quando avevo quindici
anni, loro ne avevano trenta e a me sembravano
vecchissimi. Dìaz, il portiere, ne aveva
quasi quaranta e i capelli bianchi che gli ricadevano
sulla fronte da indio arcuano. Alla coppa
partecipavano sedici squadre e l'Estrella Polar finiva
sempre dopo il decimo posto. Cedo che
nel 1957 si fossero piazzati al tredicesimo e tornavano a
casa cantando, con la maglia rossa
ben ripiegata nella borsa perché era l'unica che
avessero. Nel 1958 avevano cominciato a
vincere per uno a zero con l'Escudo Cileno, un'altra
squadra miseranda. Nessuno ci badò.
Invece, un mese dopo, quando avevano vinto quattro
partite di seguito ed erano in testa al
torneo, nei dodici paesi di Valle si cominciò a parlare
di loro.
Le vittorie erano state tutte per un solo goal, ma
bastavano a far rimanere il Deportivo
Belgrano, l'eterno campione, la squadra di Padìn, di
Constante Gauna e di Tata Cardiles, al
secondo posto, con un punto di distacco. Si parlava
dell'Estrella Polar a scuola, sull'autobus,
in piazza, ma nessuno immaginava ancora che alla fine
dell'autunno avrebbero avuto ventidue
punti contro i ventuno dei nostri.
I campi si riempivano per vederli finalmente perdere.
Erano lenti come somari e pesanti
come armadi ma marcavano a uomo e gridavano come maiali
quando non avevano la palla.
L'allenatore, uno vestito di nero, con baffetti sottili,
un neo sulla fronte e mozzicone spento tra le
labbra, correva lungo la linea laterale e li incitava con
una verga di vimini quando gli passavano
vicino. Il pubblico ci si divertiva e noi, che giocavamo
di sabato perché eravamo più piccoli, non
riuscivamo a spiegarci come potessero vincere se
giocavano così male.
Davano e ricevevano colpi con tale lealtà e con tale
entusiasmo che dovevano
appoggiarsi gli uni agli altri per uscire dal campo
mentre la gente li applaudiva per l'uno a zero
e porgeva loro bottiglie di vino rinfrescate sotto la
terra umida. La sera facevano festa nel
postribolo di Santa Ana e la Gorda Zulema si lamentava
perché mangiavano le poche cose che
conservava nella ghiacciaia.
Erano diventati l'attrazione del paese e a loro tutto era
consentito. I vecchi li raccoglievano nei
bar quando bevevano troppo e cominciavano ad attaccar
briga; i commercianti li omaggiavano
di qualche giocattolo e di caramelle per i bambini e al
cinema le ragazze Il accettavano carezze
al di sopra delle ginocchia. Fuori dal paese, nessuno li
prendeva sul serio, neppure quando
avevano vinto con l'Atletico San Martìn per due a uno.
Nel pieno dell'euforia furono sconfitti
come tutti quanti a Barda del Medio e sul finire
dell'andata persero il primo posto quando il
Deportivo Belgrano li sistemò con sette goal. Tutti
credemmo, allora, che la normalità fosse
stata ristabilita.
Ma la domenica dopo vinsero per uno a zero e continuarono
nella loro litania di
laboriose, orrende vittorie e arrivarono alla primavera
con un solo punto in meno rispetto al
campione.
L'ultimo scontro divenne storico a causa del rigore. Lo
stadio era tutto esaurito e lo erano
anche i tetti delle case vicine e il paese intero
aspettava che il Deportivo Belgrano, giocando
in casa, replicasse almeno i sette goal dell'andata. Il
giorno era fresco e assolato e le mele
cominciavano a colorirsi sugli alberi. L'Estrella Polar
aveva portato oltre cinquecento tifosi che
presero d'assalto la tribuna e i pompieri dovettero tirar
fuori gli idranti per farli stare calmi.
L'arbitro che fischiò il rigore era Herminio Silva, un
epilettico che vendeva biglietti
della lotteria nel circolo locale e tutti quanti capirono
che si stava giocando il lavoro quando al
quarantesimo del secondo tempo si era ancora sull'uno a
uno e non aveva fischiato la massima
punizione, anche se quelli del Deportivo Belgrano
entravano a tuffo nell'area dell'Estrella
Polar e facevano capriole e salti mortali per
impressionarli. Sul pareggio la squadra locale era
campione e Herminio Silva voleva conservare il rispetto
di sé e non concedeva il rigore perché
non c'era fallo.
Ma al quarantaduesimo rimanemmo tutti a bocca aperta
quando la mezz'ala sinistra
dell'Estrella Polar infilò una punizione da molto lontano
e portò la squadra ospite sul due a uno.
Allora sì che Herminio Silva pensò al suo lavoro e allungò
la partita fino a quando Padìn entrò
in area e appena gli si avvicinò un difensore fischiò.
Fece uscire dal fischietto un suono stridulo,
imponente e indicò il punto del rigore. All'epoca, il
luogo dell'esecuzione non era indicato con il
dischetto bianco e bisognava contare dodici passi da
uomo. Herminio Silva non riuscì nemmeno
a raccogliere il pallone perché l'ala destra
dell'Estrella Polar, Rivero, detto el Colo, lo stese con
un pugno sul naso. La rissa fu così lunga che scese la
sera e non ci fu modo di sgomberare
il campo né di risvegliare Herminio Silva. Il
Commissario, con una lanterna accesa, sospese
la partita e diede ordine di sparare in aria. Quella sera
il comando militare decretò lo stato di
emergenza, o qualcosa del genere, e fece preparare un
treno per allontanare dal paese tutti
quelli che non sembravano del posto.
Secondo il tribunale della Lega, che venne riunito il
martedì seguente, si dovevano
giocare ancora venti secondi a partire dall'esecuzione
del calcio di rigore, e quel match privato
tra Constante Gauna, il cannoniere, e el Gato Dìaz in
porta, avrebbe avuto luogo la domenica
dopo, ullo stesso campo, a cancelli chiusi. Così quel
rigore durò una settimana ed è, se
nessuno mi dimostra il contrario, il più lungo della
storia.
Mercoledì marinammo la scuola e andammo nel paese vicino
a curiosare. Il circolo
era chiuso e tutti gli uomini si erano riuniti sul campo,
tra le dune. Avevano formato una lunga
fila per battere i rigori contro el Gato Dìaz e
l'allenatore con il vestito nero e il neo sulla fronte
cercava di spiegare loro che quello non era il modo
migliore di mettere alla prova il portiere.
Alla fine, tutti tirarono il loro rigore e el Gato ne parò
parecchi perché li battevano con ciabatte
e scarpe da passeggio. Un soldato bassino, taciturno, che
stava in fila, sparò un tiro con la
punta dell'anfibio militare che quasi sradica la rete.
Sul far della sera tornarono in paese,
aprirono il circolo e si misero a giocare a carte. Dìaz
rimase tuta la sera senza parlare, gettando
all'indietro i capelli bianchi e duri finché dopo
mangiato s'infilò lo stuzzicadenti in bocca e disse:
- Constante li tira a destra.
- Sempre, -disse il presidente della squadra.
- Ma lui sa che io so.
- Allora siamo fottuti.
- Sì, ma io so che lui sa, - disse el Gato.
- Allora buttati subito a sinistra, - disse uno di quelli
che erano seduti a tavola.
- No. Lui sa che io so che lui sa, - disse el Gato Dìaz e
si alzò per andare a dormire.
- El Gato è sempre più strano, - disse il presidente
della squadra nel vederlo uscire pensieroso,
camminando piano.
Martedì non andò all'allenamento e nemmeno mercoledì.
Giovedì, quando lo trovarono che
camminava sui binari del treno, parlava da solo e lo
seguiva un cane dalla coda mozzata.
- Lo pari? - gli domandò, ansioso, il garzone del
ciclista.
- Non lo so. Che cosa cambia, per me? - domandò.
- Che ci consacriamo tutti, Gato. Glielo diamo nel culo a
quelle checche del Belgrano.
- Io mi consacro quando la rubia Ferriera mi dirà che mi
vuole bene, - disse e fischiò al cane per
tornarsene a casa.
Venerdì la rubia Ferreira badava come sempre alla
merceria quando il sindaco entrò con un
mazzo di fiori e con un sorriso largo quanto un'anguria
aperta.
- Questi te li manda el Gato Dìaz e fino a giovedì tu
devi dire che è il tuo fidanzato.
- Poveretto, - disse la donna con una smorfia e nemmeno
li guardò, quei fiori che erano arrivati
da Neuquén con l'autobus delle dieci e mezza.
La sera andarono al cinema insieme. Nell'intervallo, el
Gato uscì nell'atrio per fumare e la
rubia Ferreira rimase sola nella penombra, con la borsa
sulla gonna, a leggere cento volte il
programma senza alzare lo sguardo.
Sabato pomeriggio el Gato Dìaz chiese in prestito due
biciclette e andarono a fare una
passeggiata sulla riva del fiume. Mentre iniziava il
pomeriggio cercò di baciarla ma lei girò la
faccia e disse che forse gliel'avrebbe permesso domenica
sera, se parava il rigore, al ballo.
- E io come faccio a saperlo? - disse lui.
- A sapere cosa?
- Se ridevo buttare da quella parte.
La rubia Ferreira lo prese per mano e lo portò fino al
posto in cui avevano lasciato le biciclette.
- In questa vita non si sa mai chi inganna e chi è
ingannato, -disse lei.
- E se non lo paro? - domando el Gato.
- Allora vuol dire che non mi vuoi bene, -rispose la
rubia, e tornarono in paese.
La domenica del rigore partirono dal circolo venti camion
carichi di gente, ma la polizia li
bloccò all'ingresso del paese e dovettero fermarsi
accanto alla strada, ad aspettare sotto il sole.
A quei tempi e in quel posto non c'erano né televisori né
stazioni radio né qualche altro mezzo
per seguire cosa succedeva su un campo chiuso, così
quelli dell'Estrella Polar predisposero
una specie di staffetta tra lo stadio e la strada.
Il garzone del ciclista salì su un tetto da dove si
vedeva la porta di Gato Dìaz e da lì avrebbe
raccontato quello che vedeva a un altro ragazzo che stava
sul marciapiede e che a sua volta
lo avrebbe riferito a un altro che stava a venti metri e
così via finché ogni particolare sarebbe
arrivato al punto in cui aspettavano i tifosi
dell'Estrella Polar.
Alle tre del pomeriggio le due squadre scesero in campo
vestite come se dovessero
giocare una vera partita. Herminio Silva aveva la divisa
nera, scolorita ma in ordine quando
tutti furono schierati a centrocampo andò dritto verso el
Colo Rivero che gli aveva dato il pugno
la domenica prima e lo espulse. Non era ancora stato
inventato il cartellino rosso e Herminio
indicava la bocca del tunnel con mano ferma da cui
pendeva il fischietto. Alla fine, la polizia
portò via a spintoni el Colo che sarebbe voluto rimanere
a vedere il rigore. Allora l'arbitro andò
fino alla porta con la palla stretta contro un fianco,
contò dodici passi e la sistemò a terra.
El Gato Dìaz si era pettinato con la brillantina e la
testa gli risplendeva come una pentola di
alluminio.
Noi lo osservavamo appoggiati contro il muretto che
circondava il campo, proprio dietro
la porta, e quando si dispose sulla riga di calce e prese
a strofinarsi le mani nude cominciammo
a scommettere su quale lato avrebbe scelto Constante
Gauna.
Lungo la strada avevano interrotto la circolazione e
tutti aspettavano quell'istante perché erano
dieci anni che il Deportivo Belgrano non perdeva una
coppa né un campionato. Anche i poliziotti
volevano sapere, e così lasciarono che la catena di
staffette si dislocasse lungo tre chilometri e
le notizie correvano di bocca ritmate dalle contrazioni
del fiatone.
Alle tre e mezza, quando Herminio Silva ebbe ottenuto che
i dirigenti delle due squadre,
gli allenatori e le forze vive del popolo abbandonassero
il campo, Constante Gauna si avvicinò
per sistemare la palla. Era magro e muscoloso e aveva le
sopracciglia tanto folte che la faccia
ne sembrava tagliata in due. Aveva tirato tante volte
quel rigore - raccontò poi - che lo avrebbe
rifatto in ogni momento della sua vita, sveglio o
addormentato.
Alle quattro meno un quarto, Herminio Silva si dispose a
metà strada tra la porta e il
pallone, portò il fischietto alla bocca e soffiò con
tutte le sue forze. Era così nervoso e il sole gli
aveva tanto martellato sulla nuca che quando il pallone
partì in direzione della porta sentì gli
occhi rovesciarglisi all'indietro e cadde di spalle
schiumando dalla bocca. Dìaz fece un passo in
avanti e si buttò sulla destra. Il pallone partì roteando
su se stesso verso il centro della porta e
Constante Gauna indovinò subito che le gambe del Gato Dìaz
sarebbero riuscite a deviarlo di
lato. El Gato pensò al ballo della sera, alla gloria
tardiva, al fatto che qualcuno sarebbe dovuto
accorrere per mettere in corner il pallone che era
rimasto a rotolare in area.
El petiso Mirabelli arrivò per primo e la mise fuori,
contro la rete metallica, ma Herminio Silva
non poteva vederlo perché stava a terra, si rotolava in
preda a un attacco di epilessia. Quando
tutta l'Estrella Polar si rovesciò sopra al Gato Dìaz per
festeggiare, il guardalinee corse verso
Herminio Silva con la bandierina alzata e dal muretto su
cui eravamo seduti lo sentimmo
gridare : "Non vale! Non vale!"
La notizia corse di bocca in bocca, gioiosa. La respinta
del Gato e lo svenimento dell'arbitro. A
quel punto sulla strada tutti aprirono damigiane di vino
e cominciarono a festeggiare, sebbene
il "non vale" continuasse ad arrivare
balbettato dai messaggeri con una smorfia attonita.
Fino a quando Herminio Silva non si fu rimesso in piedi,
sconvolto dall'attacco, non arrivò
la risposta definitiva. Come prima cosa volle sapere
"che è successo" e quando glielo
raccontarono scosse la testa e disse che bisognava tirare
di nuovo perché lui non era stato
presente e il regolamento prescrive che la partita non si
possa giocare con un arbitro svenuto.
Allora el Gato Dìaz allontanò quelli che volevano pestare
il venditore di biglietti della lotteria al
Deportivo Belgrano e disse che bisognava sbrigarsi perché
la sera aveva un appuntamento e
una promessa e andò di nuovo a mettersi in porta.
Constante Gauna non doveva avere molta fiducia in se
stesso perché propose a Padìn di tirare
e solo dopo andò vero la palla mentre il guardalinee
aiutava Herminio a stare in piedi. Fuori si
sentivano strombazzamenti festosi dei tifosi del
Deportivo Belgrano e i giocatori dell'Estrella
Polar cominciarono a ritirarsi dal campo circondati dalla
polizia.
Il tiro arrivò a sinistra e el Gato Dìaz si buttò nella
stessa direzione con un'eleganza e
una sicurezza che non mostrò mai più. Constante Gauna alzò
gli occhi al cielo e cominciò a
piangere. Noi saltammo giù dal muretto e andammo a
guardare da vicino Dìaz, il vecchio, che
rimirava il pallone che aveva tra le mani come se avesse
estratto la pallina vincente alla lotteria.
Due anni dopo, quando el Gato era ormai un rudere e io
ero un giovanotto insolente, me lo
trovai ancora di fronte, a dodici passi di distanza, e lo
vidi immenso, rannicchiato sulla punta
dei piedi, con le dita aperte e lunghe. Aveva al dito una
fede che non era della rubia ma della
sorella del Colo Rivero, india e vecchia come lui. Evitai
di guardarlo negli occhi e cambiai piede;
poi tirai di sinistro, basso, sapendo che non l'avrebbe
parato perché era molto rigido e portava il
peso della gloria.
Quando andai a prendere il pallone nella porta, si stava
rialzando come un cane bastonato.
Bene, ragazzo - mi disse. - Un giorno andrai in giro da
queste parti a raccontare che hai
segnato
un goal a Gato Dìaz, ma nessuno ti crederà.