Letto finalmente il bel libro di
Mario Calabresi, Spingendo la notte più
in là uscito sette anni fa.
Lui nel frattempo ne ha scritti
altri due: La fortuna non esiste
(2009) e Cosa tiene accese le stelle
(2011). Non ho dubbi che siano altrettanto belli, di quei libri che ogni tanto
fa bene leggere.
Questo in particolare è un libro
che, mescolando cronaca e storie famigliari, a partire dalla propria, ci parla
di chi ha pagato il prezzo più alto degli “anni di piombo”. Le pagine
ripercorrono in fretta quel periodo, soffermandosi con delicatezza sulle
vittime, sul dolore lasciato, sugli orfani e sulle vedove, senza indugiare più
del dovuto, giusto il tempo di stabilire un contatto umano, una vicinanza,
un’intima solidarietà.
Parlare delle vittime e delle
loro famiglie, occuparsi di loro, ricordarle è una scoperta relativamente
recente. Per lunghi anni il centro della scena è stato occupato dai rei, dai
colpevoli o presunti tali, dagli assassini, verso cui si scaricano le nostre
reazioni emotive più forti e che si prestano maggiormente ad analisi
socio-psicologiche più o meno valide e a strumentalizzazioni politiche,
ideologiche, mediatiche. Nei confronti
delle vittime ha invece prevalso spesso l’imbarazzo, il disagio rivestito
pudicamente di rispetto, e infine
l’oblio.
Ma un po’ alla volta sono sorte
iniziative, si sono costituite associazioni, si sono scritti libri e dunque
adesso si può dire che, dopo essersi a lungo occupati di Caino, da qualche
tempo ci si sta interessando anche di Abele, pur in proporzioni ancora molto
diverse.
Mentre su Caino siamo sempre
pronti a radicalizzare le nostre idee, a dividerci e scontrarci, a dare giudizi
netti quanto spesso frettolosi e superficiali, su Abele invece esitiamo, siamo
più turbati, non troviamo le parole, i gesti, gli sguardi.
Spingendo la notte più in là parla anche di pacificazione, però
autentica e non di facciata come quasi sempre avviene. Più condizionati dalla
sociologia e dalla politica che guidati da attenzione alle relazioni umane, spesso tendiamo a equiparare la
“pacificazione” ad un colpo di spugna sui reati, ad un indebolimento del
confine tra la ragione e il torto e al pieno reinserimento sociale dei colpevoli,
termine che qualche volta si vorrebbe persino sostituire con il semplice
“sconfitti”.
Incredibilmente troppo spesso ci
si dimentica che una pacificazione autentica imporrebbe di chinarsi prima di
ogni altra cosa verso le vittime, evitare che si riaprano ferite che faticano a
rimarginarsi, occuparsi prima dei loro sentimenti e poi dei “diritti” del reo.
Come non esiste pena possibile o
risarcimento possibile per la soppressione di una vita umana (le leggi
stabiliscono dei limiti convenzionali dettati dal grado di civiltà e cultura
giuridica raggiunto) così una vera riconciliazione non può avvenire per
semplice procedura burocratica. I provvedimenti più o meno liberali che possono
essere adottati dallo Stato sono una cosa ben diversa dal superamento delle
barriere per proprio moto dell’animo. E le barriere possono essere superate,
sembra suggerire il libro di Calabresi, ristabilendo innanzi tutto la verità
senza opacizzarla, riconoscendo il male provocato senza cercare
giustificazioni, trovando il coraggio di piangere lo stesso pianto della
vittima, su un’unica sponda, non due pianti diversi su sponde diverse.
E’ giusto che uno Stato liberale
e un sistema giuridico non vendicativo aiutino i rei a voltare pagina. Ma per
parlare di ritorno alla normalità e di riconciliazione occorre che la pagina
riescano a voltarla anche le vittime. Leggendo il bel libro di Calabresi ci si
rende conto che mentre i primi sono accompagnati nel loro percorso da una folla
fin troppo numerosa di supporter e di curiosi, le vittime sono lasciate spesso
sole e devono trovare da sé l’energia, la voglia e il coraggio di guardare
avanti.
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