Chiudiamo gli occhi e proviamo ad
immaginare.
Una tempesta di polvere, un
disastro ecologico di grandi proporzioni, favorito da decenni di avido
sfruttamento della terra.
Un esodo, una massiccia migrazione, che dalle terre inaridite conduce migliaia di
famiglie verso una speranza di lavoro, cibo, sopravvivenza.
Un sistema finanziario e bancario
che per sopravvivere deve continuare ad alimentarsi anche quando la terra
diventa sterile per umana insipienza e
ingordigia, anche quando gli uomini non hanno di che mangiare e pagare le
tasse, anche quando le famiglie digiunano e non hanno più casa.
Un muro compatto di funzionari,
impiegati, operai, commercianti, piccoli
risparmiatori, pensionati e poveri diavoli: per sfamare se stessi e le
loro famiglie seguono senza colpa le fredde leggi di un sistema in base al
quale gli appetiti servono unicamente ad alimentare nuovi e più grandi appetiti
e dove chi si accontenta non gode, ma soccombe e lascia spazio al più forte, al
più fortunato, al più ingordo, al più veloce.
Una terra ricca e fertile,
un’agricoltura che è diventata commercio e industria e poi finanza. Un mondo di
benessere che attrae, che richiama, che ha bisogno di braccia, tante braccia, e
più sono e meno costano, dunque occorre chiamare uomini, donne e bambini da
lontano, molto lontano, abbagliati dal miraggio e disposti a tutto.
Una moltitudine in movimento che
varca confini e occupa spazi, che ha fame e non ha soldi, che è primordiale nei
suoi bisogni e dunque appare rozza, brutale, sporca, minacciosa, infetta.
Una comunità sotto assedio, che
teme per il proprio lavoro, la propria casa, la propria salute, la propria
sicurezza, le proprie donne, la propria identità e il timore diventa paura e la
paura diventa odio e l’odio diventa pregiudizio e l’ignoranza propaga il pregiudizio,
l’odio, la paura.
Chi ha paura cerca una difesa.
Contro la sporcizia, contro le malattie, contro la criminalità, contro il
pericolo venuto da lontano. Occorre stringersi, unirsi, armarsi, vigilare,
respingere.
E c’è, soprattutto, l’inesorabile
legge della domanda e dell’offerta che regola il mercato, il delicato
meccanismo che per essere mantenuto tonico ed efficiente deve fondarsi sullo
spreco, sulla deliberata distruzione di parte del raccolto per tenerne alto il
prezzo.
Ma sacrificare i frutti della
terra in nome del dio denaro, mentre gli uomini non hanno di che sfamarsi,
significa commettere azione empia verso la terra e verso gli uomini. E‘ una
ubris che aspetta di essere risarcita, e infatti i grappoli d’uva lasciata
marcire sui tralci diventano grappoli d’ira, collera, furore.
Ora possiamo riaprire gli occhi.
Dove abbiamo visto tutto questo?
Queste immagini, queste scene che
potrebbero essere cronaca del XXI secolo fanno da sfondo e da ambientazione ad
un grande romanzo scritto settantacinque anni fa e ancora in grado di competere
in attualità, forza e incisività con
tante inchieste, ricerche o riflessioni contemporanee.
John Steinbeck scrisse Grapes of
Wrath nel 1939, dopo aver studiato la condizione di vita dei contadini dell’Oklahoma
a metà degli anni Trenta del secolo scorso, quelli che seguirono la Grande
Depressione e sconvolti dalla Dust Bowl, il cataclisma che li fece migrare in
massa verso ovest, alla disperata ricerca di lavoro.
La storia della famiglia Joad, del
suo viaggio della speranza lungo la Route 66 vuole riassumere e rappresentare l’epopea
di un’intera generazione di agricoltori e
favorire la denuncia di “un’economia
che uccide” , come dice Papa Francesco. Se “Nutrire il pianeta, energia per la vita” (tema
di Expo 2015) ci sembra un obiettivo oggi tanto utopico quanto urgente e
necessario, è segno che in questi decenni ancora tante famiglie Joad in ogni
parte del globo hanno intrapreso con diverse fortune il loro viaggio della
speranza.
Pagine che scorrono veloci,
parole che pungono, personaggi che rimangono impressi. Tra tutti, mi piace
ricordare due donne. L’immensa Ma’, vero centro di gravità della famiglia,
titanica e bellissima nel suo impossibile sforzo di tenere unita la famiglia e
nel difenderne valori e dignità, e la piagnucolosa Rose of Sharon, a cui spetta
l’onore della scena finale del romanzo, perché anche i deboli talvolta trovano
nelle avversità qualche occasione di riscatto.
Storia che scava, che colpisce,
che ispira (John Ford, Woody Guthrie, Bruce Springsteen) e che continuerà a
parlarci a lungo. “Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in
tutti i posti … dappertutto dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che
lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì …. Dove c’è uno sbirro che
picchia qualcuno, io sarò lì … e sarò nelle risate dei bambini quando hanno
fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose
che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito … be’, io sarò lì”.