Parafrasando l’espressione
preferita che papà Chandal, il padre di Davita, usava per esprimere tutto il
suo entusiasmo e il suo amore per la figlia, devo esordire subito così: “Questo
sì che è un bel libro!”
Siamo negli anni Trenta del
Novecento, alla vigilia della guerra civile in Spagna. In Europa infuria lo
scontro tra opposte ideologie e si affermano i totalitarismi. La Grande
Depressione ha sconvolto il mondo occidentale e appare come l’avvisaglia del
crollo del capitalismo. Fascisti, nazisti e comunisti sembrano ormai contendersi
le spoglie di un sistema finito. A caccia di facili capri espiatori, dilagano i
pogrom, l’antisemitismo, il sospetto, il tradimento, le faide.
Ilana Davita è una bambina che
vive a New York con sua mamma, un’ebrea
polacca, e suo papà, rampollo di una facoltosa famiglia del Maine. Papà e mamma
hanno già una bella fetta di orrore alle spalle, ma Davita non lo sa. Non
ancora. Il suo sguardo si mantiene ad altezza di bambino, la sua vita scorre
tranquilla tra gli energici abbracci del papà e le meditabonde attenzioni della
mamma all’interno di mura domestiche che, soltanto, cambiano un po’ troppo
spesso per via dei continui traslochi.
In casa viene spesso tanta gente
estranea, e parlano, fumano e discutono
fino a tarda ora. Non ci si capisce nulla, ma entro i confini della sua stanza
c’è un mondo più interessante da decifrare, popolato dalla strega Baba Yaga, da
cavalli che galoppano in riva al mare e da uccellini che vagano per il mondo inseguendo
una musica misteriosa. E c’è un’arpa sempre appesa alla porta di ingresso,
un’arpa eolia pronta ad accoglierla in ogni nuovo nido e a suonare ogni volta
che qualcuno varca la soglia.
Papà e mamma sono comunisti. Lei
dunque è un’ebrea, figlia di comunisti. La scuola e la strada ne rafforzano il
carattere e il coraggio, senza farle perdere candore e innocenza. Papà e mamma
hanno tante cose a cui pensare. Cose importanti. Papà è giornalista. Mamma è
un’intellettuale. Entrambi vogliono cambiare il mondo. E fermare il fascismo,
che è il grande nemico, il grande pericolo. Davita è un raggio di sole. Davita
è la loro vita, ma la vita di papà e
mamma è al servizio di una causa superiore e assoluta.
Tutto questo ancora Davita non lo
sa, o meglio non lo può capire. Davita poco a poco compone il puzzle della sua vita e
si imbatte in pezzi dai colori e forme più disparati: guerra e uccellini, Baba
Yaga e castelli di sabbia, comunismo, fascismo, scioperi, proletariato, lavoro,
giornale, riunioni. Ogni casella prima o poi andrà a posto, intanto lei osserva
e mette da parte.
Una sezione importante del puzzle è occupata
dalla religione e anche questa è divisa in tanti frammenti.
Papà e mamma hanno abbandonato le rispettive fedi
cristiana ed ebraica, dunque Ilana Davita non riceve un’educazione religiosa.
Ma la quotidianità è fatta di incontri e di piccole scoperte e Ilana Davita si
apre con curiosità alle persone che osservano il Shabbos, accendono le candele
di channukkah, celebrano la havdoloh, recitano il kaddish, frequentano la
yeshiva, evitano di leggere i giornali goyshe, mangiano cibi kosher, studiano
la Torah, festeggiano il Lag Ba’omer. Davita, e il lettore con lei, è attratta
e un po’ intimorita da questi strani suoni, riti e melodie, da questi giovani
pallidi e magri che vivono in un modo così diverso dal suo, da queste pratiche che
le suonano altrettanto incomprensibili delle fumose riunioni politiche che
impegnano i suoi genitori. Ilana Davita poco alla volta si accosta a questo
mondo come se esplorasse una stanza piena di oggetti misteriosi. La curiosità
la spinge a frequentare la sinagoga, a spiare nel buco del tramezzo che separa
uomini e donne, a infrangere innocentemente le regole, a dare scandalo senza
sentirsene in imbarazzo e poi chiedere candidamente mille “perché” a chi non si
è mai fatto domande perché è stato allevato nel più cieco rispetto della Legge.
Chaim Potok ci mostra come ci si
possa accostare alla religione con semplicità, al di fuori da ogni dogma, e
quanto le Chiese, pur indispensabili per vivere pienamente ogni fede religiosa,
possano apparire talvolta ottuse, inique e disumane. Le istituzioni, anche
quelle religiose, talvolta soffocano gli ideali e lo spirito vitale su cui sono
state fondate e che dovrebbero proteggere. Chi cresce nel più rigoroso rispetto
di dogmi, leggi e apparati, quando si imbatte in una falla del sistema, ne
ricava la cocente esperienza del tradimento e della delusione. E’ il caso della
mamma di Ilana Davita, che dapprima sperimenta la più intransigente ortodossia
religiosa e poi si forma lei stessa alla più osservante ortodossia comunista: tanta
rigidità rende fragile il proprio universo, che quando viene colpito dal cuneo delle
contraddizioni si sbriciola in mille pezzi. Davita invece segue naturalmente il
corso delle cose, senza preconcetti, con interesse genuino e senza perdere mai
il suo senso critico. E quando la vita colpisce duro, trova una corazza più
duttile e resiliente ad incassare il colpo.
Questo romanzo, che temevo ostico
e difficile, mi ha invece conquistato immediatamente per il tono semplice e
sobrio e per la sua capacità di assumere la prospettiva di una bambina
intelligente e sensibile, che cresce e si forma in un’epoca così travagliata. La
prima parte è più lieve e quasi melodiosa. Man mano che la Storia entra nella
storia, con il suo carico di lutti e di sciagure, o ci si addentra nel bosco fitto dei riferimenti di cultura
ebraica, il ritmo si fa più lento e riflessivo, ma ormai ti sei appassionato ai
personaggi e non vedi l’ora di aprire la porta di casa, far risuonare l’arpa e
seguire con partecipazione la loro giornata.
Ho trovato bellissimo il finale.
Tranquilli, niente spoiler.
Ilana Davita , che ha motivo di
essere furiosa con il mondo, demoralizzata e
sconcertata, riceve da zia Sarah, che presta materne cure ad anime e
corpi, un prezioso consiglio da portare sempre con sè: “Sii insoddisfatta del
mondo, ma nello stesso tempo rispettalo”.
Grazie a Sarah, Davita raggiunge
una comprensione del mondo dei genitori che prima non poteva avere: “non lo sapevano, disse dolcemente, ma erano
posseduti da una sacra insoddisfazione”.
E l’uccellino è ormai pronto, a
malincuore, a spiccare il volo:
“Tenevo mia sorella, la cullavo dolcemente, annusavo
i profumi della sua piccolezza – olio, talco e latte – e, in un momento di
amarezza, pensai: Goditi la tua infanzia. Torneranno abbastanza presto a
riprendertela”.