giovedì 1 settembre 2016

Elizabeth Strout, I ragazzi Burgess




“I ragazzi Burgess”, penultimo romanzo di Elizabeth Strout, ci parla della complessità dei rapporti famigliari, di quanto possono essere chiuse le piccole comunità paesane, della difficoltà di capirsi fra diversi, ma è anche una lettura godibile e rilassante, come guardare una commedia holliwoodiana anni ’50 alle cinque del pomeriggio. Potete leggere la trama e altre recensioni qui.

Il prologo, nel quale due vedove, madre e figlia, conversano e rievocano le comuni conoscenze , scostando pensosamente le tende per guardare le betulle, dà il tono all’intera narrazione, come se l’autrice volesse ammorbidire l’impatto degli eventi più drammatici, stemperandoli nella luce tiepida del suo stile confortevole.

Seguendo i personali ricordi delle due signore, si fa velocemente amicizia con Jim, Bob e Susan Burgess, si conoscono i rispettivi coniugi e anche Zachary, il ragazzo ignorantello e impaurito che dà impulso alla storia e ne sostiene la trama fino almeno a metà.

Nella prima parte i personaggi sono vivi e credibili, pur riconducendosi ciascuno a qualche archetipo del cittadino americano, e sono ben inseriti in tematiche culturali e sociali appena tratteggiate, per non disturbare troppo i personaggi in primo piano, eppure rese efficacemente.

Da metà in poi, il romanzo ha una svolta, il motore iniziale della storia rallenta e si spegne e rimangono i personaggi, soli e nudi e senza maschera. “Nessuno mi può giudicare” potrebbe essere il titolo di questa seconda parte o, come la vedova più anziana afferma nel prologo, “nessuno conosce mai veramente qualcuno”. E' nella seconda parte che l'attenzione si sposta dalle dinamiche sociali a quelle famigliari.

L’eroe abile, disinvolto e pragmatico della prima parte, quello attento ai bisogni e alle debolezze umane (per prendersene cura, nel caso dei propri familiari, oppure per sfruttarli a proprio vantaggio, nel caso di avversari e ostacoli nella battaglia per la vita), il self made man che non sopporta i gretti razzisti ma è ugualmente allergico alle ipocrisie dei moralisti di professione e infastidito dal fanatismo del “politically correct”,  l’uomo fuggito dall’ambiente chiuso del Maine e che riesce a non farsi fagocitare dalla Grande Mela, il professionista di successo, il marito invidiato, il padre che tutti vorrebbero avere ha un suo lato oscuro. Non sorprende che ci sia, perché ce lo aspettavamo e avevamo messo in conto che potesse essere esattamente “quello”.  Sorprende piuttosto che questa scoperta abbia il potere di mandare in frantumi il personaggio e buona parte del mordente della storia.

Il romanzo funziona ancora, perché a questo punto il lettore è stato saldamente agganciato all’amo, però non c’è più la naturale scioltezza dell’avvio.

Una volta chiuso e rimesso il libro al suo posto sullo scaffale, ci capiterà di ripensare a Jim, Bob, Susan, Hellen, Pam e Zach come a persone incontrate in una lunga e piacevole vacanza, che ci hanno fatto divertire, ci hanno confidato qualche segreto e resi partecipi di qualche angoscia, senza tuttavia risultare mai invadenti, né noiosi. Tutti insieme ci hanno confermato che la famiglia è un delicatissimo intrico di sottili equilibri e che gli Stati Uniti d’America sono un posto dove è molto complicato nascere, crescere e vivere. Insomma, ce n’è di che rimanere soddisfatti, alle cinque del pomeriggio, tra un biscottino e l’altro, con il sole che filtra delicato dalle tende, mentre fuori il vento accarezza le betulle.
“Che cosa farò, Bob? Non ho più una famiglia”.

“Sì che ce l’hai”, rispose Bob. “Hai una moglie che ti odia. Tre figli che ce l’hanno a morte con te. Un fratello e una sorella che ti fanno impazzire. E un nipote che una volta era una nullità, ma a quanto parte ultimamente lo è un po’ meno. Questo è ciò che si definisce una famiglia”.

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