martedì 17 settembre 2013

Il rigore di Bud

Con questo racconto sto partecipando al concorso letterario “Nei Libri con Medeo”, dal tema “C’era una volta…”
Nel mio caso una volta non c’era un re e nemmeno un pezzo di legno (purtroppo tutti gli spunti migliori sono ormai indisponibili). Per me una volta, nella mia infanzia, c’era il calcio, il futbòl, il balùn, il gioco del pallone.
Anche adesso c’è. Ma il calcio miliardario e satellitare della Champions League e il calcetto serale degli impiegati sono un’altra cosa rispetto a quel calcio là.
“Il rigore più lungo del mondo” di Osvaldo Soriano è considerato il più bel racconto mai scritto sul calcio.
Molti anni fa Alessandro Baricco e Gabriele Vacis ne fecero una lettura accattivante in “Totem” spettacolo teatrale trasmesso anche da Rai Tre.
Verso i 9-10 anni, ho abitato a Quincinetto, un piccolo paese in provincia di Torino, a pochi chilometri dalla Valle d’Aosta. Il campo sportivo era proprio di fronte alla scuola e a volte non si passava nemmeno da casa.
La domenica, tutto il paese con il naso incollato alla rete di cinta, un po’ a fare il tifo, un po’ a sfottere gli svarioni dei “fulatùn” in campo. No, avete capito male: in campo non c’erano ragazzini tra i sei e gli otto anni, incitati da genitori che già se li vedevano contesi dai club più forti e più ricchi del pianeta. Erano invece giovanotti tra i venti-venticinque anni, tipo “una vita da mediano” di Ligabue, una vita a recuperar palloni finché ce n’hai, finché ce n’hai.
Gli eroi di quell’epoca si chiamavano Rombo di Tuono, Puliciclone, Bonimba e trovavano in Gianni Brera e Beppe Viola i loro cantori.
Ecco, c’era una volta quel calcio lì. Io ho messo tutto insieme (Quincinetto, Osvaldo Soriano, Gianni Brera, Rombo di Tuono) e ho scritto questo racconto che, rileggendolo, trovo abbia qualche nota malinconica di troppo, (quando si scrive, come quando si cucina, basta sbagliare il dosaggio di un ingrediente e la pietanza è rovinata) però cosa volete… mi ci sono affezionato!  Per ora ho superato la prima selezione del concorso, ora sono in attesa dell'esito della seconda fase, incrociamo le dita...
Il rigore di Bud

La partita era già quasi finita, purtroppo.

Per un tempo interminabile ne avevo sentito le urla e i boati dalla finestra della mia camera, con il divieto assoluto di uscire prima di aver finito i compiti. Ma quando vinsi il mio lungo duello con Pascoli, Nabucodonosor e i confini del Friuli Venezia Giulia, corsi a raggiungere i miei amici per il gran finale.

“Dai Mario vieni, c’è posto qui”

“Dove?”

“Qui, muoviti che sta per tirare”

Mi diedero una mano e riuscii a issarmi sul muro di cinta della scuola, proprio alle spalle della nostra porta.

Intorno alla rete del campo sportivo non c’era un buco libero e ugualmente affollati erano i balconi e gli alberi dai quali si riuscisse a vedere anche solo uno spicchio del campo da gioco. Tutta Quincinetto stava guardando il derby con il Tavagnasco.

Filippo, ingabbiato in una maglia verde smeraldo con un grande numero 12 scritto sulla schiena, correva verso la nostra area di rigore, mentre ancora si stava infilando i guanti.

All’altezza degli undici metri incrociò lo sguardo del centravanti avversario dalle lunghe gambe magre e i capelli a spazzola, che sogghignò beffardo sotto le occhiaie scure:

“Sei pronto Bud, per la brutta figura?”

Lo chiamavano Bud, un nomignolo che non stava per Bud Spencer, nonostante il nostro portierone fosse grande e grosso come l’armadio di nonna Adele.

Bud si pronunciava proprio con la “u” e stava per budino. Dicevano:

“Come fai a giocare da portiere, con quelle mani di polenta che ti ritrovi?”

Il fatto era che non aveva scelto lui di giocare da portiere. Da ragazzino avrebbe voluto giocare in attacco e fare tanti goal come Pulici e Graziani, o anche come Gigi Riva, il mitico Rombo di Tuono che, seppur non avesse mai giocato nel grande Toro, era stato il suo primo campione preferito.

Ma con ogni allenatore finiva allo stesso modo:

“Sei lento Filippo, non trovi mai la posizione, riesci a procurarti due o tre palle in tutta la partita e le sprechi pure”.

E allora lo spedivano in porta, dove nessuno voleva mai andare, spiegandogli che la sua altezza era un grande vantaggio, doveva solo guadagnare un po’ di agilità, essere più pronto di riflessi e soprattutto farsi ascoltare dalla difesa. Il resto sarebbe venuto da sé, con la tecnica e l’esperienza.

Nessuno pensò mai di mandarlo via, o di consigliargli di lasciar perdere, perché Filippo era buono e simpatico, aveva un sincero attaccamento alla squadra, e tutto il paese gli voleva bene.

Dopo alcune stagioni, tutti i ragazzi lasciavano la squadra perché risucchiati dal lavoro, dallo studio, dalle fidanzatine. I più ambiziosi partivano per inseguire sogni di gloria in qualche club blasonato. Tutti passavano e Filippo restava, guadagnandosi di diritto la maglia numero 12, il rispetto dovuto ai veterani e il nomignolo “Bud”, che poco alla volta sostituì del tutto il suo vero nome.

Il mister trovava il modo di farlo giocare qualche scampolo di partita in ogni campionato, a volte addirittura un tempo intero e a lui tanto bastava per rimanere ancora nel giro, fare da chioccia ai bocia e avere di che parlare durante le lunghe giornate all’officina.

A Quincinetto non ci saremmo mai aspettati di vedere entrare Bud proprio nella partita più attesa della stagione, quella che valeva un intero campionato.

Fino all’88° minuto la partita era stata una specie di assedio di Fort Alamo. Le maglie gialle del Tavagnasco sbucavano da tutte le parti, veloci e implacabili. I nostri, in maglietta e calzoncini neri, erano schiacciati indietro e si battevano da vere pantere, ma quelli là, appena si impossessavano del pallone, tiravano verso la nostra porta senza pensarci due volte.

Andrea, il nostro portiere titolare, aveva già fatto una mezza dozzina di miracoli.

Come si dice in questi casi, il goal era nell’aria e non restava che guardare le lancette dell’orologio e pregare che corressero più in fretta. Invece sembravano di piombo.

A due minuti dalla fine, quando eravamo ancora sullo 0 a 0, accadde il fattaccio.

In una delle rare volte che eravamo riusciti a superare la metà campo, ci infilano in contropiede: lancio preciso a pescare il numero 7 sulla tre quarti, questo va via veloce, salta un difensore, punta verso la porta, cross.

Andrea esce, salta, le mani aperte verso l’infinito, un bellissimo, lunghissimo volo per intercettare la palla prima che questa trovi la testa del numero 11 avversario. Un volo che si imprime fotogramma per fotogramma sulle retine di tutti i quincinettesi accalcati attorno al campo e che trasmette un impulso preciso al cervello di ognuno di noi: è fuori tempo. Porca vacca, Andrea è fuori tempo, non la prende!

Anche il cervello di Andrea probabilmente registra il medesimo impulso, oppure siamo noi che glielo trasmettiamo con le nostre onde elettromagnetiche, fatto sta che d’un tratto il nostro portiere si disinteressa del pallone, compie una mezza torsione con il busto, allarga le braccia e fa cadere un gomito proprio nel bel mezzo della faccia del loro attaccante.

Naso rotto, sangue a fiotti, nervi tesi, le maglie gialle circondano i nostri, qualcuno grida state calmi, l’arbitro scatta e salta come tarantolato e spinge prima questo e poi quell’altro giocatore. I numerosi tifosi venuti da Tavagnasco si agitano come un mare in tempesta e urlano “Fuori, fuori!” Tutti gli altri sono muti e rigidi come statue.

Andrea deve lasciare il campo, cartellino rosso. Dobbiamo togliere anche un altro dei nostri per far entrare il portiere di riserva.

E’ proprio così che andarono le cose: Bud entrò in campo nel derby a due minuti dalla fine per affrontare il rigore della vita. Lo smarrimento del pubblico fu talmente forte che quasi ci scordammo di fargli il rituale applauso di incoraggiamento.

Allora Giovanni, che era seduto vicino a me, si alzò diritto sul muretto e da un capo all’altro del campo si sentì la sua vocina di undicenne gridare:

“Forza Bud, spaccagli il culo!”

Partirono i nostri cori, poi i cori del Tavagnasco, mentre i due gladiatori nell’arena prendevano posizione. Bud raggiunse la porta, diede un calcetto al primo palo, poi si portò con calma al secondo palo e fece la stessa cosa. L’arbitro era già pronto, il rigorista stava sistemando la palla sul dischetto e c’era da giurare che avrebbe ripetuto il gesto almeno un’altra volta.

Ognuno recitava a memoria il collaudato copione per far crescere la tensione e creare il giusto “pathos”. Al faccione buono di Bud la sorte aveva assegnato la parte di vittima sacrificale, a lui quindi spettava il compito di inventarsi qualcosa per rendere meno scontato il finale già scritto.

Nonostante la rabbia per lo smacco imminente mi stringesse lo stomaco, era soprattutto il dispiacere per l’umiliazione di Bud a salirmi in gola, pronta a sciogliersi in lacrime appena il pallone avesse gonfiato la nostra rete, tra le grida di esultanza degli avversari in festa e i cori osceni dei loro tifosi sazi del nostro scalpo.

Dove avrebbe tirato il numero 9, quello con la faccia da Nosferatu? Dove si sarebbe buttato Bud? Io continuavo a fissare la palla e la porta, la porta e la palla, trattenendo il fiato e stringendo i pugni fino a farmi male. Bud era piantato al centro della porta, le gambe piegate e lo sguardo fisso in avanti, impassibile, concentratissimo.

Quando l’arbitro fischiò, Nosferatu prese una rincorsa breve, giusto pochi passi prima del tiro. L’ultimo pensiero di Bud prima dell’esecuzione fu per Luisa.

Erano fidanzati da molti anni, ma Luisa non voleva sposarlo fino a quando lui non avesse “messo la testa a posto”, che per lei significava smettere di giocare a calcio.

“Come fa un uomo di trent’anni suonati a pensare di correre ancora dietro a un pallone?’”

Bud non provava nemmeno a replicare che un portiere non “corre dietro a un pallone”, ben sapendo che il senso pratico di una commessa che tutte le mattine alle sette prendeva il treno per andare a lavorare a Torino, e che alla domenica dava una mano nel bar dei genitori, era incompatibile con qualsiasi accenno a regole o schemi di gioco.

Ma nessuno poteva dirgli di smettere con il calcio, nemmeno Luisa. Il Toro, il suo grande Toro era riuscito a vincere lo scudetto 27 anni dopo Superga, segno che nello sport può sempre capitare, a chi ha cuore e passione, di compiere un’impresa eroica.

Bud era consapevole che in questo modo rischiava di perdere una ragazza d’oro. Il suo timore non era che qualche facoltoso cliente gliela portasse via. E nemmeno dava peso agli scherzi e ai lazzi dei suoi compagni di squadra, che lo stuzzicavano ogni domenica a proposito della sua bella tutta sola dietro il bancone di un bar.

Conosceva bene Luisa e Bud temeva piuttosto quei viaggi in treno la mattina presto e la sera, in scompartimenti pieni di studenti fuori sede. Ecco, sarebbe stato uno di questi, magari più taciturno e solitario degli altri, uno che amasse leggere Dostoevskij, che un giorno avrebbe potuto portargliela via.

Nosferatu stava calciando il pallone, Bud aveva deciso di buttarsi a sinistra quando improvvisamente gli apparve, sì gli “apparve” proprio come la Madonna, il sorriso di Luisa. Era il sorriso che gli faceva quando per gioco riusciva a morderlo, tra un bacio e l’altro, facendolo sussultare. Lei si divertiva molto, perché Bud ogni volta ci cascava e si spaventava, ritraendosi con un balzo.

Bud aveva iniziato a piegare il corpo verso sinistra, ma appena fu colpito da quel sorriso sornione come spinto da una molla o da un riflesso condizionato, si gettò a destra, giusto in tempo perché i suoi pugni chiusi incontrassero il pallone scagliato a tutta forza.

Le mani di Bud, le sue famose mani di budino decisero le sorti dell’incontro. Questa volta i suoi polsi non si piegarono, ma ressero l’urto della staffilata come se fossero di acciaio. La palla si impennò e scavalcò la traversa, oltre la nostra porta.

Finì 0 a 0. Bud era stato il nostro eroe e alla fine della partita lo portammo in trionfo. Lui si godette l’euforia, gli abbracci, i cori, le canzoncine, tutto quanto.

Era felice perché da quel momento Bud si sarebbe pronunciato con la “a”, come Bud Spencer e perché lui avrebbe potuto raccontare mille volte quella partita epica.

E finalmente avrebbe potuto sposare la sua Luisa, visto che adesso era il momento giusto per smettere di “correre dietro a un pallone”.

Sotto la doccia, ripensò ad un giorno di tanti anni prima, quando superò l’esame di terza media e sua mamma gli cucinò il pollo arrosto, che era il suo piatto preferito. Papà già non c’era più e due anni dopo anche sua mamma morì. Lui andò a lavorare nell’officina di suo zio. La zia, conoscendo la sua passione per il pollo arrosto, glielo cucinava tutte le domeniche. Era molto più buono di quello che gli preparava la sua povera mamma, eppure nei suoi ricordi il pollo della festa era quello che sua mamma, facendo del suo meglio, cercava di mettere in tavola per farlo contento.

Quella sera, Bud telefonò a Luisa e le disse che dovevano festeggiare.

“Che bello Fil – fece lei – mi porti a mangiare la pizza?”

“No, stasera pollo – rispose lui – e cucino io”.

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